Capitolo quinto

Le funzioni dell'Io e le sue deficienze

I. LA TEORIA STRUTTURALE DELL'APPARATO MENTALE

Soltanto nel 1921, circa trenta anni dopo la sua prima pubblicazione sulla psicoanalisi, Freud propose una teoria comprensiva della struttura e della funzione della mente. Egli distinse, da un punto di vista strutturale, tre parti diverse: l'id, che è il serbatoio ereditario degli impulsi istintivi e caotici non ancora armonizzati tra di loro, né con la realtà esterna; l'io, ossia la parte integrante della personalità, che modifica, seleziona, controlla e coordina le tendenze dellW, ed esclude o modifica quelle in conflitto con la realtà esterna; il superio, ultimo sviluppo della mente, che personifica il codice morale; codice strettamente legato all'ambiente sociale e che varia col variare dei circoli culturali. Mediante la identificazione con gli adulti, tale codice viene a poco a poco incorporato nella personalità e ne diventa parte.

In un lavoro precedente, io ponevo una distinzione tra il super io inconscio e l'ioideale cosciente. Quest'ultimo contiene dei valori accettati in un'epoca della vita più matura; valori che governano la condotta dell'individuo. Il superio viene acquisito nei primi anni dell'esistenza e rimane inconscio, funziona automaticamente, e le influenze modificatrici della vita lo cambiano difficilmente. Esso può essere paragonato a una serie complessa di riflessi condizionati. Tale distinzione fu accettata da molti psicologi, ma oggi io mi chiedo se è possibile in realtà fare una distinzione strutturale così rigida. Nell'individuo normale la maggior parte delle norme iniziali vengono lentamente modificate da ulteriori influenze. Parleremo in seguito della difficoltà di fare distinzione schematiche tra le diverse parti della personalità. È ovvio che Freud considerava questa teoria strutturale come un mezzo di orientamento approssimativo. Non è dunque opportuno dilungar visi troppo (Hartmann, Kris, Lowenstein).

Sembra più conveniente distinguere le differenti funzioni della mente che non suddividerla in compartimenti stagni. Considerare nettamente definite le parti dal punto di vista strutturale può condurre involontariamente a supporre che nel cervello esistano strutture anatomicamente corrispondenti. Il che significa una localizzazione anatomica delle funzioni del cervello più severa di quanto non giustifichino le nostre cognizioni attuali. Sebbene le funzioni del cervello possano essere differenziate con precisione, la loro corrispondente anatomia è molto vaga, ed è aggrovigliata, specialmente nei centri superiori. La nozione dell'i^, come fu definito inizialmente, è problematica. A rigor di termini, una massa ereditaria di impulsi istintivi del tutto inorganizzata non esiste nemmeno al momento della nascita. L'organismo possiede anche allora una notevole quantità di riflessi coordinati. Le funzioni coordinative che si attribuiscono all'io non sono ancora in giuoco, e vengono acquisite mediante l'apprendimento. Questo, però, comincia subito dopo la nascita, ed è quindi difficile stabilire in quale periodo avviene la sottile distinzione tra un id. inorganizzato e un io organizzato. L'io è senza dubbio il prodotto dello sviluppo e dell'adattamento. Quest'ultimo è un processo continuo che comincia all'atto della nascita, cosicché la distinzione tra id e io dovrebbe essere concepita come una continuità fluida piuttosto che come una rigida dicotomia. I recenti studi di. Thomas French hanno dimostrato che nella vita del sogno, la quale è primitiva e più strettamente connessa alle funzioni dell'id che non a quelle dell'io, vi è una considerevole quantità di integrazione. Vi si possono riconoscere funzioni mentali più o meno finemente organizzate, ma è impossibile fare una distinzione sottile tra una partedella mente completamente organizzata, e un'altra del tutto disorganizzata.

Di solito le funzioni del superio. si considerano come prime reazioni assorbite dall'organismo che diventano in gran parte automatiche e inconsce, non più suscettibili di essere modificate dalle influenze esterne. Qui, di nuovo, è consigliabile distinguere tra reazioni più o meno emotive e il comportamento, piuttosto che tra un superio del tutto automatico e un io cosciente e più duttile. Il superio si sviluppa attraverso l'identificazione del bambino con gli atteggiamenti, opinioni e giudizi dei genitori; e questo è uno dei fattori più importanti dell'apprendimento. L'io impara a condursi in modo corretto identificandosi con coloro che lo hanno dominato. Mediante la ripetizione, questa condotta diventa automatica e abituale. Dal punto di vista strutturale, gli atteggiamenti dei genitori hanno preso il sopravvento sulla personalità, una parte della quale assume verso le altre quello stesso atteggiamento che i genitori assunsero verso il fanciullo. La identificazione con i genitori e l'incorporamento delle loro immagini condiziona l'adattamento all'ambiente sociale. Una parte della personalità accetta il suo codice e ne diventa il rappresentante. È la parte che Freud chiama superio. È importante rendersi conto che la personalità totale non si adatta alla società, o per meglio dire, in ciascuno di noi, anche nelle persone normali, sopravvivono atteggiamenti asociali. Vi è un conflitto continuo, anche negli individui normali, tra le prime tendenze restrittive e non sintonizzate, e l'influenza limitatrice del superio.

L'esistenza del superio spiega come in ogni forma di civiltà esista, negli individui, una forza disciplinatrice, indispensabile all'ordine sociale. Se non ci fosse un codice interno come quello imposto dal superio o coscienza, l'ordine sociale potrebbe essere assicurato soltanto mettendo un poliziotto a fianco di ogni cittadino. Un comportamento sociale senza dubbio non si_ può in alcun modo attuare soltanto con la paura di una punizione materiale. Ogni individuo equilibrato possiede un senso di disciplina non legato alla coercizione. L'analisi psicologica ha dimostrato, pero, che il consenso interno al costume sociale riguarda solo poche norme fondamentali. Senza la paura del castigo la maggioranza della gente si comporterebbe socialmente peggio di quel che in realtà non faccia, perché il superio per lo più non sostituisce adeguatamente una vera autorità.

Il solo modo di sapere quali inclinazioni asociali vengono controllate da un'autorità interna, e quali da una esterna, sarebbe quello di abolire tutte le sanzioni. Un esame statistico dei vari tipi di crimini che aumenterebbero in tali circostanze, e di quelle tendenze al delitto che invece non richiedono un controllo esterno, potrebbe indicare sino a qual punto l'uomo non si è sintonizzato con la vita collettiva. L'esperienza psicoanalitica afferma che nella civiltà contemporanea solo il cannibalismo, il vero incesto, il parricidio e il fratricidio non aumenterebbero se venisse abolita ogni forma di sanzione penale. Questi impulsi asociali, sebbene palesi nell'uomo all'inizio del suo sviluppo, vengono repressi con tanto successo che in realtà non sussistono a lungo. Proibizioni speciali contro il cannibalismo, necessarie in alcune civiltà primitive, sono superflue tra noi, giacché l'impulso di mangiare altri esseri umani è stato profondamente rimosso allo stadio iniziale.

Può sembrare paradossale che la nostra nozione delle funzioni più altamente integrative e coordinative dell'io, sia stata acquisita in un'epoca posteriore alla comprensione degli schemi emotivi, e più primitivi, dell 'id.. Nella letteratura psicoanalitica sinora sono stati pubblicati pochi studi sistematici sulle funzioni sintetiche, congiuntive e di adattamento dell'io. Esistono molte ragioni che spiegano tale fatto. Primo: la psicoanalisi ha sviluppato un tipo di psicopatologia non solo meramente descrittivo, ma anche esplicativo. Esso tratta più schemi di reazioni irrazionali e primitive, che non comportamenti bene equilibrati. La curiosità scientifica relativa alla condotta umana fu da principio risvegliata dalle sue anomalie. Nelle malattie mentali, in cui prevale una mentalità più primitiva e meno equilibrata, una comprensione normale del comportamento non è sufficiente. Perché un individuo dovrebbe sentirsi impaurito, in situazioni niente affatto pericolose, come, per esempio, nel passeggiare per la città o nel sedere a tavola in un ristorante — o perché dovrebbe sentirsi depresso e desiderare la morte senza una ragione? Fatti simili richiedono una spiegazione particolare; ed è per questo che il materiale patologico attrasse per primo l'interesse scientifico a uno studio sistematico.

Un'altra ragione per cui abbiamo una minor conoscenza delle funzioni coscienti dell'io, è che esse ci sono troppo vicine. Noi avvertiamo costantemente la presenza del nostro io. Questo è un fenomeno comune nell'esperienza clinica. I pazienti spesso ammettono, senza molta resistenza, delle inclinazioni discutibili delle quali lo psicoanalista dimostra l'esistenza nel subcosciente, al di fuori del loro vero io. Poiché tali tendenze represse e biasimevoli esistono al di fuori della personalità reale, possono anche venire ammesse, e il paziente si conforta dicendo: «Queste cose strane stanno nel mio subcosciente, non in me. Non fanno parte della mia personalità cosciente». Un effettivo conflitto sorge soltanto quando gli impulsi inconsci cominciano a penetrare nell'io, e il paziente si rende conto di essi, come parti della sua stessa personalità.

Una terza ragione che giustifica la insufficienza delle nostre cognizioni circa le funzioni dell'io, è che esse sono più complicate di quelle dell 'id, e includono riflessi condizionati differenziati e inibizioni riflesse. Un recente progresso nella psicoanalisi permette una definizione più precisa di quella fatta sinora, ma le cose che non sappiamo sono ancora molte. Possiamo riassumere nel modo seguente tutto ciò che sappiamo sull'io.

L'io è un apparato che ha due superfici percettive; una diretta internamente verso gli impulsi e i bisogni istintivi, l'altra diretta verso la realtà esterna (attraverso la percezione sensibile). La funzione integrativa dell'io è quella di confrontare la percezione interna con.i risultati della percezione dei sensi, e armonizzare le esigenze subiettive con le circostanze esteriori, in modo da poter raggiungere il maggior soddisfacimento possibile. Oltre questa funzione integrativa, l'io ha una funzione esecutiva legata al controllo delle azioni volontarie dell'individuo. Attraverso una condotta equilibrata, le condizioni dell'organismo vengono mantenute in un equilibrio costante e omeostatico. Queste tre funzioni dell'Io — la percezione interna ed esterna, l'integrazione e l'azione esecutiva — corrispondono a canali afferenti ed efferenti del cervello, e alla complessa architettura dei suoi centri funzionali.

L'io cosciente è la parte più plastica della mente, poiché a ogni istante esso può adattare la condotta dell'individuo a una data situazione, in contrasto a un comportamento automatico e a riflessi più rigidi. Le reazioni automatiche rispondono a certi stimoli in maniera uniforme e non possono perciò adattarsi ai subitanei cambiamenti della situazione esterna, mentre l'io ha la capacità di adattarsi alle circostanze.

Il funzionamento dell'intero apparato mentale può essere descritto press'a poco così: i. bisogni istintivi e gli impulsi tendono a diventare coscienti, perché l'io cosciente controlla le innervazioni da cui dipende il loro appagamento. Gran parte delle esigenze istintive diventano immediatamente coscienti, e vengono accettate o respinte dopo cosciente deliberazione. Ciò che implica una valutazione della situazione esterna e un confronto tra le esigenze interne e le tendenze coscienti contrarie. Per esempio, nel dover scegliere tra andare a sentire una conferenza e andare a teatro esiste un conflitto cosciente che può essere risolto mediante una decisione cosciente. Si deve rinunciare a un desiderio perché esso è incompatibile con l'altro, più forte. L'attività mentale cosciente consiste in una continua conciliazione tra desideri incompatibili. Alcuni debbono essere temporaneamente frenati, altri modificati, altri subordinati a esigenze più importanti, o conciliati con le condizioni esterne già esistenti. Anche una persona davvero sana può attuare con successo questi costanti compromessi soltanto in date condizioni. La capacità di adattamento di ciascuno di noi può venir meno in circostanze difficili, tali da oltrepassare la facoltà di controllo. Negli animali è stata prodotta in via sperimentale la neurosi, creando artificialmente delle situazioni che l'animale è incapace di fronteggiare. Lo sforzo continuo — come è avvenuto durante la guerra — ha creato acuti disturbi nevrotici in persone prima perfettamente sane.

La maggior parte di quel che conosciamo circa il dinamismo della psicopatologia, oggi ci viene dallo studio del crollo di questo funzionamento adattivo dell'io, che porta come risultato le neurosi e le psicosi. Solo da poco tempo è stato intrapreso lo studio sistematico delle normali funzioni di adattamento (French). Giacché la maggior parte delle nostre nozioni di psicodinamica provengono da materiale patologico, questo libro sarà dedicato soprattutto allo studio delle deficienze nelle funzioni dell'io. Ogni volta che l'io fallisce nel suo compito integrativo, torna a quelle misure difensive che l'io infantile usò a suo tempo contro gli impulsi che non riusciva ad armonizzare tra di loro: impulsi che si riferiscono all'ambiente e che esso quindi deve escludere dal suo campo di azione. Tutti i tipici meccanismi difensivi dell'io vengono usati occasionalmente dalle persone normali, ma in modo assai più ampio in condizioni neuropatiche e psicopatiche. La comprensione dei fenomeni psicopatologici richiede la conoscenza di questi meccanismi difensivi, che hanno orgine nell'infanzia, quando i poteri integrativi dell'io infantile sono limitati. È però necessario sapere qualche cosa circa le forme iniziali di sviluppo dell'io.

II. SVILUPPO DELLE FUNZIONI DELL'IO

Abbiamo visto che la funzione fondamentale dell'io è quella di mantenere nell'organismo condizioni costanti. Esso è l'agente del principio di stabilità. Freud formulò tale concetto dicendo che è compito dell'io conservare a un livello costante la quantità di eccitazione che esiste nell'organismo. Per far ciò, esso deve sorvegliare e ridurre gli stimoli esterni e alleviare la pressione dei bisogni, degli impulsi e dei desideri. La protezione contro successivi stimoli esterni viene assicurata in primo luogo dalla struttura degli organi dei sensi, che selezionano certi stimoli e sono sensibili unicamente a stimoli fisici di una qualità specifica. È ben nota la funzione protettiva della pelle contro i cambiamenti di temperatura e altri stimoli fisici. L'occhio reagisce solo allo stimolo ottico di una determinata lunghezza d'onda; e così avviene per l'udito, sebbene l'occhio possa venir chiuso, mentre gli orecchi purtroppo no. Durante il sonno, gli stimoli esterni che agiscono allo stato di veglia vengono esclusi.

Ridurre gli stimoli interni a un livello costante è un compito complicatissimo. La funzione adattativa e integrativa dell'io consiste nel soddisfare i bisogni e nell'alleviare le tensioni emotive, in modo da conservare intatta l'integrità dell'io. È spesso necessario soffrire o impegnarsi in compiti spiacevoli e faticosi per assicurare l'appagamento di certi bisogni importanti. L'io deve sviluppare una scala di valori; desideri anche importanti debbono essere subordinati o lasciati da parte, se sono in conflitto con bisogni anche più importanti. Un montanaro può deliberatamente aumentare lo sforzo della scalata portando un pesante zaino sulle spalle, ma quando è arrivato, egli si gode in pieno la sosta sulla vetta della montagna, perché ha con sé cibo e vesti.

Adesso dobbiamo cercare di comprendere come si sviluppa nel fanciullo che cresce questo complesso funzionamento dell'io. Innanzi tutto lo definiremo con maggior precisione, e poi tenteremo di ricostruire quel che sappiamo circa il suo sviluppo. Prima che le funzioni integrative dell'io si siano sviluppate, ogni impulso cerca il suo soddisfacimento senza alcun riguardo per le necessità dell'organismo totale. Se il bambino è arrabbiato, manifesterà la sua collera dando calci, strillando e comportandosi male, in tutti i modi. Egli, più tardi, controlla tali esplosioni perché ha imparato che non facendolo rischia di perdere l'indulgenza e l'affetto dei genitori. Il bambino può voler mangiare e giuocare nello stesso momento, ma si accorge di non poter fare le due cose insieme. Le cause di un certo comportamento, controllato da impulsi isolati che cercano una immediata soddisfazione, furono chiamate da Freud «principio del piaceredolore». Egli prese questa nozione dai «volontaristi» del XVII e del XVIII secolo, come Hobbes e Helvetius, i quali l'avevano presa a loro volta dagli Epicurei greci.

Attraverso esperienze di giuoco ed esperienze spiacevoli, il bambino, la cui capacità di adattamento e di integrazione è minore di quella dell'adulto, a poco a poco impara a coordinare i propri impulsi e a metterli in relazione con l'ambiente, secondo quello che Freud ha chiamato «principio della realtà». Questo è, come egli appropriatamente lo ha definito, un principio migliorato di piaceredolore che appaga i bisogni, cercando efficacemente di evitare le tensioni penose create dalle frustrazioni, e gli stimoli esterni spiacevoli, come per esempio il castigo. Agire secondo un inalterato principio di piaceredolore in definitiva causerebbe all'organismo più dolore che piacere; l'organismo in effetti non potrebbe sopravvivere. Il principio della realtà significa una condotta prudentemente stabilita e coordinata, la quale spesso richiede restrizioni e sforzi volontari, ma assicura maggiori soddisfazioni. Essa rappresenta il miglior affare che l'organismo possa concludere con la realtà, in determinate condizioni, e perciò può essere a ragione chiamato «un migliorato principio del piacere». Naturalmente il principio della realtà viene applicato con successo vario, e forse nessun organismo raggiunge il massimo della propria efficienza. La capacità d'integrazione degli individui varia, e la efficienza dello stesso individuo può variare secondo il variare di fattori imponderabili. Il fattore più importante nell'applicazione del principio della realtà, è il sapere, acquistato mediante l'esperienza.

Siamo ora giùnti a un concetto abbastanza preciso delle successive fasi del processo che ci insegna a coordinare i nostri desideri e a metterli in rapporto con le condizioni esterne. Freud formulò quest'idea nei suoi scritti, a proposito del trapasso dal principio piaceredolore a quello della realtà. Noi conosciamo i punti essenziali di questo processo, sebbene rimangano da studiarne molti dettagli. Gran parte di esso rientrava già in certi criteri di «buon senso». Come Freud ha giustamente osservato, il buon senso e una condotta razionale vanno sempre di conserva, sono ammessi senz'altro, ma non vengono mai descritti metodicamente. Spiegarli, sembra un voler elaborare cose ovvie.

Allo scopo di descrivere con maggior esattezza come opera il principio della realtà, French ha cercato di analizzare i meccanismi a cui il buon sènso si affida. Egli distingue tra due tipi di desideri. Un tipo — come la fame, il dolore e la paura — nasce da bisogni insoddisfatti, i quali producono delle tensioni che, a loro volta (a meno che non vengano inibite) trovano sfogo in attività muscolari, simili a quella del dimenarsi di un bambino affamato. A questi si contrappongono i desideri stimolati dalla occasione che si presenta di appagarli o dal ricordo di soddisfacimenti già avuti. Nascono così speranze di realizzazioni positive. Lo scopo è di raggiungere, non di evitare, qualche cosa.

Tale distinzione è importante per il diverso effetto che producono i bisogni e le speranze sulla tensione nata da desideri insoddisfatti. Questi ultimi causano una tensione penosa e spiacevole, che la speranza tende ad alleviare.

Necessità sempre crescenti, o conflitti tra necessità incompatibili tra di loro, possono non aumentare la efficacia degli sforzi verso un pieno soddisfacimento. Uno sforzo, ben diretto è più che un rilassamento della tensione. Per conseguirlo, non basta fare qualche cosa; è necessario anche sapere quel che si deve fare. Perché possano risultare di qualche utilità, gli sforzi debbono essere guidati dalla piena comprensione del problema da risolvere. Se la tensione diventa troppo alta, la mente ne perde il controllo. La possibilità di agire seguendo il principio della realtà, dipende dalla capacità integrativa o, in altre parole, da un piano, atto ad appagare le necessità, a risolvere il contrasto tra bisogni incompatibili tra di loro; e dall'abilità dell'io nel realizzare un tale piano. Abilità dipendente in gran parte dal saper controllare gli impulsi che chiedono un soddisfacimento immediato, il quale turberebbe il piano prestabilito.

1. Identificazione

Un processo fondamentale attraverso il quale l'io acquista efficienza, è l'identificazione con i genitori, con i loro atteggiamenti, sentimenti e pensieri. L'io può imparare qualche cosa non soltanto dai propri errori e tentativi, ma anche dall'esperienza altrui. L'identificazione, in ultima analisi, però, conduce a una maggiore indipendenza. Assumendo gli atteggiamenti dei genitori, il bambino a poco a poco arriva a poter fare a meno del loro aiuto effettivo e finisce col bastare a se stesso. Questo fatto viene illustrato da una contingenza comunissima: l'identificazione con una persona amata e perduta. Il senso della perdita è compensato dal ricercare nella propria personalità quella dell'essere caro perduto. Marcusewiez cita il caso di una bambina che, avendo perduto il suo gattino, dichiarò di essere ella stessa un gatto. Cominciò a camminare a quattro zampe come un animale, e rifiutò di mangiare a tavola.

L'identificazione è la base di ogni apprendimento non acquisito in modo indipendente attraverso tentativi ed errori. Essa è il meccanismo più importante nello sviluppo dell'io maturo, ma può essere utile anche come difesa in certi processi psicopatologici. Parleremo di ciò in seguito, insieme agli altri meccanismi di difesa dell'io.

Poiché le facoltà integrative del bambino vengono acquisite gradatamente attraverso l'esperienza, l'io deve, per un certo tempo, difendersi dagli stimoli interni, ai quali non può cedere senza sconvolgere la propria armonia, o soffrire per cause esterne. Tali misure difensive sono state accuratamente studiate e ne riparleremo nella terza parte di questo capitolo. Esse, per esempio, sono state trattate in maniera più metodica che non le attività razionali dell'adulto, perché inadeguate e alla base di tutto il comportamento regressivo, incomprensibile al comune buon senso.

2. Alcune supposizioni sulle prime fasi di sviluppo dell'Io

Quel che sappiamo sulle prime fasi dello sviluppo dell'io è un'ipotesi, più che il risultato di osservazioni dirette. Tali fasi possono essere osservate in parecchi pazienti affetti da gravi forme di neurosi e soprattutto di psicosi; pazienti che spesso tornano alle fasi iniziali dello sviluppo dell'io. Osservazioni dirette fatte sui bambini prima che comincino a parlare, permettono solo di supporre quel che avviene nella mente del fanciullo. Dovremmo ricordarci che la comunicazione verbale è il solo metodo realmente idoneo alla ricerca psicologica, e che, senza di essa, è impossibile avere cognizioni di prima mano. Quel che possiamo stabilire con esattezza circa questa prima fase di sviluppo dell'io, non è completo. Abbiamo ragione di supporre che una delle primissime applicazioni del principio della realtà fatte dal bambino, sia quella di distinguere se stesso da ciò che lo circonda. Sin dalla nascita, egli e esposto a un costante stimolo esterno e interno, in contrasto con lo stato prenatale durante il quale era protetto e i suoi bisogni biologici venivano automaticamente soddisfatti dall'organismo materno. Dopo la nascita, il bambino deve impegnarsi in varie attività per mantenere le condizioni omeostatiche. Attività quali il respirare e il succhiare, sono automatiche; tuttavia l'apprendimento comincia subito dopo la nascita. In confronto agli animali, l'organismo umano dipende dalla madre per un periodo di tempo più lungo, e il processo dell'apprendimento è quindi più lungo e più completo.

L'organismo nasce con un certo corredo ereditario, a protezione dagli stimoli esterni. Esso deve perciò imparare a soddisfare le proprie esigenze interne, eccettuata la respirazione e la nutrizione, le quali avvengono naturalmente.

Anche l'attività nutritiva si modifica dopo lo svezzamento, e l'individuo deve imparare a esercitare il controllo sulle funzioni escretorie.

Tale fenomeno è stato già descritto in un precedente capitolo, come pure la padronanza che si viene acquistando gradatamente sui muscoli volontari, attraverso la progressiva coordinazione del giuoco erotico originario.

Qui cercheremo di riassumere tutte le supposizioni ragionevoli che è possibile fare circa le prime fasi della funzione, comprovante la realtà dell'io.

Abbiamo ragione di credere che inizialmente non esista alcuna distinzione tra il mondo interno e quello esterno. Stimoli e sensazioni appartengono tutti alla medesima categoria, e la differenziazione tra l'io e il mondo esterno avviene solo gradatamente, a mano a mano che l'io si sviluppa. La prima fase di differenziazione, secondo Freud, è che all'io vengono assegnate soltanto sensazioni piacevoli, originate sia dagli stimoli esterni che interni dell'organismo, e il resto (sensazioni spiacevoli) viene attribuito al mondo esterno. Questa è la base della «proiezione», un meccanismo difensivo che descriveremo in seguito.

Sembra probabile che il bambino possa, almeno temporaneamente, appagare i propri bisogni mediante la riproduzione immaginaria delle prime esperienze soddisfacenti. Ciò è possibile perché gli adulti finiscono col provvedere a tutte le sue necessità ed egli non ha bisogno di far nulla da sé. Aumentando l'indipendenza, però, la fantasia deve essere sostituita da una maggiore attività per assicurarsi il soddisfacimento delle esigenze personali; il che implica una più larga nozione della realtà. Anche gli aspetti spiacevoli della realtà vanno riconosciuti. Lo psicopatico rinuncia a questo primo adattamento alla realtà e, attraverso le allucinazioni, torna a una volontaria distorsione delle percezioni dei sensi. Si deve supporre che gli schizofrenici non abbiano fatto molto bene questo primo passo, così da non stabilire mai nettamente, entro di loro, la distinzione tra io e nonio. Solo un vago rapporto con la realtà esterna può spiegare una soluzione così radicale dei conflitti mentali.

Non sappiamo ancora con esattezza in qual modo l'appagamento immaginario venga rimpiazzato da quello reale. Sino a che alle esigenze del bambino provvede la madre, egli'non è costretto a prendersi cura di sé. Il soddisfacimento immaginario dà al fanciullo un godimento transitorio allorché i suoi bisogni biologici non vengono soddisfatti dalla madre. Tale godimento non è mai completo, e se il bambino risente una tensione, allora si dà a una attività incoordinata. Durante simili attività egli scopre per caso dei modelli di comportamento atti a soddisfare le sue necessità biologiche. Questi vengono ripetuti, giacché il fanciullo ha trovato un nesso tra loro e la propria sensazione di sollievo dalla tensione. A forza di ripetersi, quei modelli si stabilizzano e si perfezionano. Il valore dell'appagamento immaginario diminuisce in proporzione all'aumentata capacità del fanciullo di procurarsi un godimento reale. È probabile che il fatto di succhiarsi il pollice sia stato scoperto in tal modo, e che dopo essèrsi reso padrone del controllo visivo e della coordinazione delle innervazioni muscolari, il bimbo abbia scoperto la possibilità di afferrare e di mettersi in bocca degli oggetti, aprendo così la via a forme più indipendenti di nutrizione.

Il bambino deve imparare a rendersi conto della realtà esterna: inoltre, egli deve sapere che gli impulsi a cui sono dovute le esperienze dolorose, nascono dentro di lui. Il riconoscimento di impulsi negativi viene annullato nelle psicosi paranoiche, ove tali impulsi sono proiettati in altri individui. Naturalmente la capacità di controllare i propri impulsi si sviluppa solo gradatamente, e la prima difesa del bambino consiste nel reprimerli. La repressione e le sue sequenze psicodinamiche sono i processi più importanti i quali ci permettono di comprendere la psicopatologia delle neurosi.

III. MECCANISMI DIFENSIVI DELL'IO

1. Repressione

La misura di difesa fondamentale dell'io è la repressione. Freud riteneva la repressione una reazione normale dell'io infantile, la cui capacità integrativa è estremamente limitata. La repressione o rimozione consiste nell'escludere dalla coscienza gli impulsi negativi e le loro rappresentazioni immaginarie.

Ciò accade sempre quando un desiderio, un impulso o un'idea, divenendo coscienti, causerebbero un conflitto insopportabile che culminerebbe nella ansietà. La repressione di un desiderio, contrariamente a una rimozione cosciente, è una inibizione assai più profonda della personalità. Il fatto che sia inconscia risparmia alla personalità cosciente un penoso conflitto. Tutto il processo avviene al di fuori della coscienza. Nella repressione il rifiuto è automatico, altrimenti il contenuto mentale inaccettabile non potrebbe rimanere inconscio. Esso è un riflesso inibitore che segue i princìpi dei riflessi condizionati. È ovvio che tale inconscia inibizione presuppone una inconscia percezione interna, la quale porta all'inibizione automatica riflessa.

La repressione si basa su un processo che Freud chiamò « censura». Questa censura, che funziona automaticamente in presenza di impulsi inaccettabili, è una sorta di primitivo e inconscio giudizio che esclude determinate istanze dalla coscienza e opera schematicamente, giacché è incapace di sottili differenziazioni: in tal modo reagisce in maniera uniforme a certe tensioni emotive, senza riguardo alle loro reali e talvolta importanti differenze. Esso è dunque più simile a un riflesso condizionato che a un giudizio deliberato. Per citare un esempio comune, la repressione delle prime urgenze sessuali del bambino, leggermente incestuose, stabilisce una formula generale di repressione sessuale, la quale rimane in seguito nella vita, cosicché quando nell'adolescenza sorge la sessualità, prevale su di essa una forma di timidezza generica. Sebbene l'impulso sessuale abbia perduto il suo carattere apertamente incestuoso e sia ora diretto vèrso oggetti accettabili, esso soffre ancora dei timori dell'infanzia. Al superio manca la capacità di fare sottili distinzioni; e perciò reprime la sessualità in genere, senza rendersi conto che l'oggetto dell'urgenza non è più quello dell'infanzia. Tale fenomeno è descritto dai riflessologi come la diffusione di una inibizione. L'adolescente timido e inibito ci presenta un quadro del' risultato di questa restrizione automatica. In breve, la repressione è sempre esagerata, e comprende impulsi che l'io cosciente non rifiuterebbe, se fossero a lui noti. Tale funzione automatica e severissima è una delle cause più frequenti dei disturbi psiconeurotici. Molti sintomi psiconeurotici sono il risultato di tensioni insopportabili, prodotte da una repressione eccessiva.

Nella teoria originale di Freud, la repressione opera nella seguente maniera: comincia col percepire nell'intimo una tensione che tende a divenire cosciente, al fine di stimolare le innervazioni necessarie alla distensione. Se tale tendenza è in contrasto con il codice etico accettato nell'infanzia e che si identifica col superio, l'io cosciente la rifiuta con terrore; e di qui ha origine la repressione. Nella terminologia dell'originaria teoria strutturale, l'io agisce secondo le direttive del superio, e rifiuta la tendenza id condannata, producendo così la repressione. La paura del superio, risentita dall'io, è il segnale che avverte quest'ultimo di reprimere gli impulsi disapprovati, a suo tempo, dai genitori

L'io è sottoposto a due forze differenti: l'affermazione dei bisogni individuali fatta dall'id e la loro negazione fatta dal super io. L'io mira a raggiungere un compromesso tra le due forze, modificandole in modo compatibile col codice del superio. Noi chiamiamo questo processo addomesticamento o «sublimazione» delle istanze originarie, ereditarie, nonsociali. La sublimazione consiste nel modificare le tendenze originarie non sociali, e ha luogo ovunque esista un normale equilibrio. Di ciò parleremo in seguito.

Si suppone generalmente che le personalità neurotiche e psicopatiche posseggano una capacità di sublimazione minore del necessario, tenuto conto delle loro repressioni eccessive. Queste personalità patologiche sono dominate dai loro impulsi originari, che non possono assecondare perché — e sembra un paradosso! — hanno sviluppato anche un rigido codice di condotta. Esse insomma sono insieme ultrasociali e asociali.

Abbiamo detto prima che la repressione è un modo caratteristico dell'io infantile di condursi nei riguardi delle pulsioni istintive che portano il bambino in conflitto con l'ambiente. Ogni repressione è in rapporto con originarie proibizioni dei genitori, o con ostacoli opposti dalle condizioni ambientali, oggettivi e immu tabli. Un esempio comune è la repressione delle tendenze coprofi liche dei bambini sotto l'influenza della disapprovazione dei genitori. I genitori vietano il soddisfacimento di tale tendenza, e il fanciullo, che da essi dipende completamente, reagisce alla proibizione con l'ansietà — sia che il veto venga espresso con pene corporali, che con una diminuzione di tenerezza. Poiché l'io infantile è incapace di controllare impulsi potenti, cerca immediatamente di tradurre in atto ogni suo desiderio. IL solo modo di controllare tali impulsi, è di escluderli dalla coscienza. L'io del fanciullo non può resistere alla tentazione. Il rinvio di una immediata realizzazione e la rinuncia ai propri desideri sono penose conquiste che si fanno durante lo sviluppo. Sino a che mancano, il bambino deve reprimere gli impulsi proibiti, allo scopo di evitare contrarietà.

Sebbene la repressione sia un processo inconscio, esso lascia sulla superficie della coscienza certi fenomeni emotivi di natura difensiva. Al posto delle tendenze coprofiliche, si sostituisce il disgusto.' Il desiderio di giuocare con le feci scompare dalla coscienza, lasciando un senso di schifo. La pietà è l'equivalente protettivo e similare (countercathexis) di tendenze originarie verso la crudeltà. Altro equivalente protettivo, e anche più primitivo, è il senso di giustizia che si leva a combattere il desiderio del bambino di avere tutto per sé; desiderio che si esprime nell'invidia e nella rivalità con i fratelli. Altra manifestazione cosciente della repressione è l'ansietà, che appare ogni qual volta un impulso estraneo all'io minaccia di penetrare nella coscienza.

Insomma, la repressione è una misura mediante la quale gli impulsi che non possono essere integrati nell'io, vengono esclusi da esso, giacché diversamente determinerebbero ansietà, senso di colpevolezza e autocondanna. L'io infantile possiede una capacità insufficiente a risolvere i conflitti mediante un compromesso; e la sua unica risorsa è quella di rimuovere dalla coscienza le forze perturbatrici.

In ultima analisi, la repressione è un espediente primitivo dell'io per conservare la propria integrità. I poteri integrativi del fanciullo sono deboli; e perciò il suo io può soltanto escludere dalla coscienza gli impulsi che non è in grado di controllare e di armonizzare. Egli deve ciò che ha imparato all'identificazione con i genitori e con altri criteri maturi di comportamento: criteri che limitano i suoi desideri a vantaggio di quelli altrui. Le punizioni e la sottrazione di affetto gli hanno insegnato ad accettare quei criteri e ad escludere gli impulsi nocivi. Ciò indebolisce le risorse dinamiche dell'io, ma ne salva l'unità. Le tendenze estranee all'io vengono represse, perché non possono subire le opportune modificazioni. Lo studio psicoanalitico delle neurosi e delle psicosi ha dimostrato che le forze psichiche represse non cessano di esistere. L'io deve ricorrere a misure difensive contro quelle forze, che tendono ad annullare le sue risorse dinamiche e a renderlo sempre meno capace di esercitare la propria funzione equilibratrice e a un adattamento alla realtà esterna. Esso perde soprattutto quel surplus di energia, sorgente dell'attività creativa, sociale e sessuale.

La repressione eccessiva è una delle cause più importanti delle neurosi. L'impulso represso occasionalmente penetra attraverso le barriere dell'io, e si esprime nella condotta palese. Molte delle misure difensive dell'io sono indirizzate contro il contenuto psicologico che ha, in tal modo, sfondato le barriere della repressione. Una simile irruzione rivoluzionaria si manifesta sotto forma di sintomi neurotici e psicopatici, o in un comportamento neurotico caratterizzato dalla sua irrazionalità, dalla mancanza di coordinazione col resto della personalità, dal suo carattere reiterativo. Tratteremo quest'argomento nel capitolo sulle psiconeurosi e sui disordini della condotta umana

2. L'ansietà

Da quanto abbiamo detto, è ovvio che la forza motrice della repressione è l'ansietà, prodotta da certi impulsi il cui appagamento si dimostrò, in passato, penoso. La paura nasce dal ricordo di dolorose esperienze passate. La sequenza temporale è questa: prima la percezione di un impulso; poi l'azione di soddisfare questo impulso; infine esperienze penose che ne risultano (punizioni, sottrazione di affetto, o dolore causato da ostacoli materiali). Attraverso la ripetizione di tale sequenza, la paura viene a saldarsi con il primo anello della catena, e cioè l'impulso stesso. All'inizio, esiste una paura vaga dei genitori e del dolore causato da ostacoli materiali; a poco a poco questa paura diventa interiore, e s'indirizza verso il primo anello della catena — l'impulso —, origine di tutto il perturbamento. Questa paura non nasce a causa di un pericolo esterno, ma di pericolosi impulsi interni. L'ansietà è paura penetrata nell'intimo dell'individuo. Anche l'agente preposto alla punizione si intimizza; e la paura iniziale, risentita verso chi puniva il soddisfacimento degli istinti, diventa un timore della coscienza, la quale rappresenta, in seno alla personalità umana, i genitori.

L'ansietà non sorge da un atto manifesto, ma solo dall'impulso a commetterlo. È dunque chiaro che l'ansietà è preventiva: un segnale di allarme ali 'io per avvertirlo che un impulso pericoloso, già causa nel passato di turbamento e di sofferenza, è in procinto di prendere il sopravvento. Tale terrore, intimizzato, può essere avvertito come una vaga ansietà, o può invece essere connesso a una concreta aspettativa di dolore, o infine può apparire sotto la forma di sentimenti di colpa. Poiché si tratta di una reazione inconscia alle pulsioni represse, l'ansietà viene razionalmente spiegata con ragioni secondarie, che in realtà non la spiegano affatto. Talvolta, non è nemmeno riconosciuta come un senso di colpa e si manifesta quale un fluttuante senso ansioso, privo di contenuto specifico; quasi uno stato generale di panico.

Nello studio delle neurosi maschili, è stato coerentemente provato che il contenuto dell'ansietà inconscia è la paura della castrazione. Nei bambini — sia nei casi di neurosi coercitivoosses sive, che nelle schizofrenie — questo terrore spesso appare apertamente, senza deformazioni; in altri tipi di neurosi, e nei sogni di individui sani e malati, si esprime in forme più o meno distorte. La ubiquità della paura della castrazione, la sua presenza nei bambini normali e negli adulti neurotici, e specialmente la sua diffusione e le sue varie manifestazioni nel folklore, nella mitologia e nelle fiabe (per esempio, Medusa, Sansone e Dalila, Salome, Giuditta, la storia dell'Idra dalle sette teste, Edipo Re, Struwwelpeter, Pinocchio ecc.) induce Freud a darle un significato importante, quale primissimo fattore della repressione. Su tale argomento esiste una vasta letteratura dovuta a Freud e ad altri. Il nocciolo della sua teoria, avvalorata dall'evidenza clinica e dall'osservazione diretta sui bambini, può essere riassunto in poche parole.

Il primo conflitto interpersonale del bambino si sviluppa nel triangolo familiare (complesso di Edipo). La madre è, per i due sessi, il primo oggetto di un amore dipendente. Nel bambino questo attaccamento assume un carattere sessuale incestuoso presso a poco tra il terzo e il sesto anno di vita — quasi una specie di anticipazione anacronistica dei desideri genitali. Siamo nella fase fallica della classica teoria della libido. Qualche bambino può esprimere direttamente il desiderio di sposare sua madre; altri dimostrano verso di lei soltanto una notevole, istintiva curiosità sessuale. Nel contempo, appare la gelosia e l'ostilità verso il padre, di intensità variabile. Dall'osservazione dei bambini come da quella degli adulti, può inferirsi con sicurezza che l'ostilità contro il padre è legata al riconoscimento, da parte del fanciullo, della propria inadeguatezza; cosa che provoca la sua invidia per le qualità fisiche superiori del padre. La occasione di osservare i genitali maturi, suscita nel bambino il desiderio di appropriarseli, per mettersi così in grado di sostituire il padre nella sua relazione con la madre (desiderio di castrazione). Tale desiderio aggressivo segue la legge primitiva della coscienza, la lex talionis — occhio per occhio, dente per dente —, e conduce al terrore della rappresaglia; il che rappresenta uno dei fattori più importanti nello sviluppo della paura della castrazione. Tale paura è rafforzata inoltre dalla scoperta delle differenze anatomiche tra bambini e bambine, che sembra ai ragazzetti una prova evidente della possibilità di perdere il proprio pene. Un'altra ragione che di solito rafforza questa paura, va ricercata nelle minacce frequenti — più o meno velate — che i genitori fanno ai bambini riguardo alla masturbazione. Sino a poco tempo fa queste minacce erano comunissime.

L'universalità della paura della castrazione nei bambini suggerì a Starcke e a me stesso l'indagine su altre comuni esperienze dei primi anni di vita; esperienze che possono concorrere a produrre la paura della castrazione. Noi giungemmo — ciascuno per nostro conto — alla conclusione che esistono delle primissime esperienze nelle quali il piacere termina bruscamente con la perdita di qualche cosa che il fanciullo considera una parte del proprio corpo. Durante l'allattamento il bimbo deve abbandonare il capezzolo o il poppatoio, fonti del suo piacere, e più tardi, quando gli vengono insegnate le norme di igiene e di pulizia personale, deve rinunciare a ritenere le feci, altra fonte per lui di eccitamento erotico. In ambedue i casi il piacere erotico è seguito dalla perdita di qualche cosa di piacevole, e tale sequenza è già profondamente radicata nella mente del fanciullo, prima che sorga il conflitto di Edipo. Le prime fantasie sulla masturbazione, che includono desiderio per la madre e gelosia e paura del padre, fanno nascere il terrore di perdere il pene: la sorgente, cioè, del piacere erotico. Il fatto di aver perduto il capezzolo e le feci, fonti di piacere, fa temere al bambino di perdere anche il pene. I desideri di castrazione, la conoscenza dell'anatomia femminile, e le minacce di una vera castrazione, contribuiscono inoltre a fargli temere la mutilazione.

Freud considerava la paura della castrazione come il fattore più importante per la risoluzione del complesso di Edipo. Essa induce il bambino a rinunciare all'attaccamento sessuale per la madre e a trasferirlo ad altri oggetti. Ciò che gli permette una identificazione positiva col padre, come persona da emulare più che da sostituire. Il suo ideale è quello di diventare simile al padre, adottandone atteggiamenti, opinioni e modi di condotta. Nondimeno, anche negli individui normali questo processo non è né semplice, né facile. La strada dalla fase ostile della competizione a quella della identificazione, è un lungo processo emotivo. I sentimenti di colpa che riflettono la paura intimizzata della castrazione, si sviluppano come reazioni all'ostilità e allo spirito di emulazione, i quali a loro volta conducono alla sofferenza e alla sottomissione. Quando il senso di colpa richiede un'obbedienza assoluta che si trasforma in erotismo, assume un carattere masochista e si combina con desideri passivi e femminili verso il padre (complesso di Edipo invertito). Da ciò nascfe un senso di vergogna, e di regola quei desideri vengono sovracompensati da impulsi esageratamente ostili, che a loro volta danno origine a un nuovo senso di paura e di colpa, e conducono a rinnovate ondate di sottomissione femminile masochista. Nei neuropatici, questo circolo vizioso rappresenta di frequente il conflitto nucleare; e la sua risoluzione richiede spesso una lunga e difficile terapia.

Lo sviluppo emotivo della bambina è diverso da quello del fanciullo, e ha lasciato a lungo perplessi gli investigatori. Ancor oggi su questo argomento non è stato raggiunto un accordo. Il primo oggetto di attaccamento sia del bambino che della bambina, è la madre. Nel caso della bimba, occore spiegare perché ella più tardi si volga dalla madre verso il padre. Freud riteneva che lo sviluppo dei maschi e delle femmine da principio avvenga parallelamente, ambedue provando per la madre lo stesso affetto sottomesso. Oltrepassata la fase pregenitale, l'orientamento dei due sessi diventa fallico o mascolino: la clitoride della bambina diventa la zona erogena importante. Dal punto di vista filogenetico, la clitoride è un pene rudimentale, espressione anatomica della bisessualità femminile. Solo dopo che la bambina ha perduto la speranza di veder crescere la clitoride sino a raggiungere la misura di un pene, ella è costretta a rinunciare alle sue aspirazioni mascoline e ad accettare il ruolo femminile, più passivo. Allora, può volgersi verso il padre ed entrare in gara con la madre.

Questi concetti freudiani sono stati controbattuti, tra gli altri, da Karen Homey, la quale fa risalire le forti aspirazioni mascoline della bambina al grande valore che si dà, nella civiltà moderna, al fatto di essere un uomo; valore che s'imprime presto sullo spirito femminile. La Horney spiega l'attaccamento della bimba al padre col fatto assai semplice che ella è biologicamente e psicologicamente una donna, nella quale prevalgono i desideri passivi e ricettivi propri della sua anatomia e della sua fisiologia.

La bisessualità fisiologica e psicologica, tuttavia, è indiscutibile sia negli uomini che nelle donne, sebbene una prevalenza di caratteristiche maschili negli infanti dei due sessi, per quanto ne so io, non sia stata avvalorata dai biologi. La graduale emancipazione dei bambini dei due sessi dalla madre, può essere spiegata con l'aumentare della loro indipendenza biologica. Inoltre, le istintive reazioni emotive dei genitori verso i figli e le figlie, vanno prese in più seria considerazione di quanto sia stato fatto nel passato. Era facile non accorgersi dell'influenza che i genitori hanno sullo sviluppo emotivo dei figli; ma l'inclinazione verso l'uno o l'altro dei genitori, viene determinata in gran parte dall'atteggiamento stesso dei genitori verso i figli. Nulla lo dimostra così chiaramente come lo studio dei bambini e delle bambine omosessuali. È più facile per gli adulti attribuire le origini del complesso di Edipo al bambino, che non ammettere il proprio contributo al suo sviluppo.

3. Sovracompensazione (formazione delle reazioni)

La misura difensiva più comune contro le tendenze represse è lo sviluppo di atteggiamenti o tratti di carattere esattamente opposti a quelli contro i quali essi servono da baluardo. Così, la crudeltà repressa è mantenuta inconscia da una esagerata compassione per le sofferenze altrui. Le prime tendenze coprofiliche conducono a un'eccessiva pulizia e al disgusto della sporcizia. L'ostilità repressa può essere controbilanciata da un'estrema sottomissione e umiltà. L'esibizionismo rimane inconscio a causa della timidezza e del senso di incertezza, e l'inferiorità può essere nascosta da un comportamento vanaglorioso ed esibizionista. La sovracompensazione e il formarsi delle reazioni sono misure difensive dell'io contro le tendenze represse che rimangono inconsce sino a che atteggiamenti sovracompensatori o il carattere del soggetto riescono a reprimerli. Gli impulsi repressi, però, talvolta penetrano attraverso le difese sovracompensatrici e si manifestano apertamente.

«Un paziente di mezza età arrivò con mezz'ora di ritardo: disse che mentre camminava per la strada, aveva visto un carrettiere che batteva spietatamente i suoi cavalli, i quali lottavano per tirar fuori dalla melma un pesantissimo carro. «Non mi potevo muovere — disse il paziente — ero costretto a guardare la scena». Dopo aver guardato un po', si arrabbiò e se la prese col carrettiere che allora gli si volse contro e minacciò di frustarlo, se non pensava ai fatti suoi. La lite andava sempre più accendendosi, ed essi stavano proprio per venire alle mani, quando un poliziotto, chiamato da uno degli spettatori nella piccola folla rapidamente assembratasi, li separò. «Bene — finì il paziente — ecco la cagione per cui ho fatto tardi». Gli chiesi di dirmi qualche cosa sul suo modo di considerare gli animali. Mi assicurò di provare una grandissima compassione per le sofferenze fisiche sia degli uomini che degli animali. Non poteva veder uccidere neanche una mosca. Poi, dopo qualche esitazione, disse che ciò non sempre era stato vero. Da bambino, catturava le mosche, strappava loro le ali, e le osservava dibattersi disperatamente. A poco a poco, e sempre meglio, ricordò le crudeltà commesse contro gli animali: per esempio, come raccoglieva rane, introduceva nei loro corpi delle cannucce e vi soffiava dentro sino a farle scoppiare. Nelle sedute seguenti, giunse a ricordare ostilità e crudeltà verso fratellini più piccoli di lui (rivali) e contro compagni di giuoco più deboli, commesse all'età di cinque anni».

La sovracompensazione, quale mezzo per sopprimere tendenze avverse, si manifesta in modo più acuto quando le pulsioni inconsce minacciano di cercare uno sfogo nel comportamento. Un esempio comune è la sensazione improvvisa di paralisi emotiva, come difesa contro la paura di un subitaneo scoppio d'ira. In alcune situazioni, un atteggiamento estremamente umile e cortese può servire a tenere in rispetto i sentimenti aggressivi. Quando le misure sovracompensatrici sono più costanti ed entrano a far parte del carattere dell'individuo, si chiamano «caratteri reattivi». Molte tendenze sociali sono (almeno parzialmente) difese compensatone dell'io. Contribuiscono, però, alla formazione dei caratteri reattivi, l'identificazione con gli altri e l'ambivalenza. La pietà, per esempio, presuppone una identificazione positiva con una persona che si ama e si odia contemporaneamente. Se non ci fosse l'amore, la pietà non potrebbe tenere in freno gli impulsi ostili.

Freud considerava il principio di polarità come uno dei più fondamentali nella personalità umana. Gli impulsi emotivi compaiono sempre a coppie di opposti: amore e odio, crudeltà e compassione, spavalderia e paura, umiltà e vanagloria, esibizionismo e voyerismo. Tale polarità onnipresente era una delle ragioni per cui Freud aderiva così conseguentemente a una prospettiva dualistica della vita istintiva. Gli istinti dell'io, la sessualità, le pulsioni erotiche e ostili, e infine gli istinti di vita e di morte, diventarono per lui forze fondamentali in perpetuo contrasto entro l'organismo vivente.

La maggior parte di questa apparente polarità può spiegarsi senza ricorrere a teorie filosofiche sulla qualità ultima delle forze fisiche. Il fanciullo che cresce, è da principio governato soltanto da forze biologiche; più tardi diventa parte di gruppi sociali, il primo dei quali è la famiglia. La vita di gruppo esige nuovi adattamenti; l'originario narcisismo egocentrico si fonde con i vari atteggiamenti verso gli altri: dipendenza, ostilità, invidia, amore e identificazione. Inoltre, il principio del surplus di energia opera nel senso di rendere erotiche determinate attività, e anche i rapporti sociali. Tutti gli affetti umani acquistano così un carattere erotico e libidinoso; l'amore per un obbietto rimpiazza l'amore per se stesso. Ciò dimostra che in aggiunta all'energia biologica necessaria all'adattamento dell'organismo, esiste un surplus che viene adoperato non per la conservazione della vita, ma per la sua propagazione. Questo surplus è rappresentato, nel campo psicologico, dall'amore per gli altri, una volta che i bisogni narcisistici siano stati saturati.

Tale differenza tra l'amore per se stesso e l'amore per gli altri è la sola vera polarità che esista nella personalità umana. Molte delle antitesi sopra citate — quali il sadismo e il masochismo o l'esibizionismo e il voyerismo — che appaiono a coppie nel materiale clinico, possono spiegarsi con la repressione e la so vracompensazione. La difesa dell'io contro le pulsioni avverse implica l'uso di tali atteggiamenti contrastanti. Non c'è bisogno di supporre la preesistenza di una mistica polarità. Nella pietà, per esempio, l'identificazione viene adoperata per bloccare il desiderio di essere crudele.

Dal punto di vista clinico, il fenomeno più importante fu osservato da Bleuler, e da lui descritto come ambivalenza: amore e odio diretti verso la medesima persona, nel medesimo istante. L'ambivalenza, dovuta al duplice orientamento dell'uomo come individuo e come membro della società, è universale. E infatti, più una persona ama un^altra, più il nucleo narcisistico della personalità odia l'oggetto amato. In condizioni normali, tuttavia, uno di questi due impulsi viene sepolto profondamente. Il che è comprensibile, poiché non vi è forse situazione più equivoca di quella che ci porta a odiare chi amiamo, e ad amare chi odiamo. Negli stati morbosi, però, tutti e due i lati di questo atteggiamento ambivalente possono divenire coscienti. Una madre eccezionalmente coscienziosa, che viveva soltanto per i suoi figli, a un certo punto fu ossessionata dall'idea che li avrebbe strangolati nel sonno. È chiaro che ella aveva perduto la capacità di reprimere i propri impulsi ostili, i quali venivano a galla come reazione al suo affetto materno eccessivo e prepotente. Nella vita normale, l'odio represso per una persona che si ama, può scoppiare se ci si sente traditi da lei. L'amore allora viene improvvisamente sostituito da un odio spietato. I delitti passionali di solito sono un risultato dell'ambivalenza.

Negli individui normali, i sentimenti ostili repressi vengono alla superficie nei sogni riguardanti la morte di amici intimi o di parenti stretti. Queste sono manifestazioni comuni dell'ambivalenza, che si ritrova in tutti gli affetti umani. L'antitesi tra amore di sé e amore per gli altri, spiega perché tutti coloro che possono essere oggetto di amore, sono nemici del nucleo narcisistico della personalità, e possono in determinate circostanze, diventare oggetto di odio. Più si ama un'altra persona, e maggiore è la quantità di amore che si toglie a se stessi. La sovracompensazione dell'odio per mezzo dell'amore e l'inverso, illustrano questa comune polarità, esistente in seno alla personalità umana; polarità che l'io adopera per mantenere inconscia una delle componenti del rapporto umano ambivalente.

4. Razionalizzazione

Uno dei princìpi fondamentali del dinamismo psichico è che tutte le azioni umane sono determinate e motivate da un certo numero di cause emotive. Un filantropo può dare dei denari per un istituto contro il cancro, perché sua moglie morì di cancro, perché vuol fare qualche cosa per la comunità a cui deve la propria ricchezza, perché desidera la notorietà, o perché vuole alleviare dei sentimenti di colpa causati dai metodi poco scrupolosi da lui adoperati negli affari; o anche perché s'interessa all'umanità. La risposta giusta alla domanda: «Perché avete aiutato il vostro amico?» non è: «L'ho fatto per lealtà, e non perché volevo mostrarmi superiore a lui», ma: «L'ho aiutato per lealtà, e perché volevo mostrarmi superiore a lui, e perché avevo degli obblighi verso di lui, e perché speravo che un giorno o l'altro egli avrebbe potuto aiutare me». Molto probabilmente, vi sono anche parecchie altre ragioni. Non «o... o...», ma «e... e...», è la formula delle azioni umane.

«Razionalizzare» significa selezionare da un complesso di motivi mescolati ciò che è maggiormente accettabile per spiegare il comportamento umano; e que«to permette la repressione di altri motivi avversi. Perché i motivi selezionati siano idonei all'atto, quelli inaccettabili debbono essere ignorati o rinnegati. Non è affatto giusto definire la razionalizzazione come l'invenzione di motivi necessariamente inesistenti: di solito, si tratta di una selezione arbitraria che passa speciosamente per l'intero processo. La razionalizzazione, s'intende, è un potente aiuto per reprimere motivi inaccettabili, ed è probabilmente la più comune misura difensiva dell'io.

5. Sostituzione e dislocazione

Un'altra comune misura difensiva dell'io consiste nel trasferire uno stato affettivo da un oggetto all'altro, salvando così il sentimento. Nella sostituzione, esso rimane conscio, e soltanto la meta verso cui era originariamente indirizzato è inconscia. Per esempio, un uomo che prova sentimenti di ostilità verso un suo benefattore perché è in concorrenza con lui negli affari, può dirigere la propria ostilità verso un altro concorrente a cui non deve nulla, o verso sua moglie, i suoi figli o il suo cane. Un rimprovero subito in ufficio può far sì che un uomo torni a casa di pessimo umore e, senza rendersi conto della sua ostilità verso il proprio capo, trova che la moglie fa tutto male, sgrida i bambini, e prende a calci il cane. Anche le persone oggetto di appetiti sessuali, possono venire sostituite. Le prime attrazioni sessuali verso i membri della famiglia vengono trasferite a persone al di fuori di questa cerchia. Se il trasferimento riesce bene e tutta la carica emotiva viene diretta altrove, la repressione non è necessaria, giacché l'impulso avverso ha trovato uno sfogo accettabile.

L'espressione «sostituzione» è spesso usata quale sinonimo di dislocazione o transfert. Nondimeno, io trovo consigliabile parlare di « sostituzione» quando viene cambiata l'azione, ma non necessariamente l'oggetto. Per esempio, gli impulsi aggressivi che si sentono verso una persona, possono essere alleviati da un violento esercizio fisico, come tagliar legna o altre azioni, distruttive ma atte a consumare utilmente energia, e che in ultima analisi sono dirette a uno scopo costruttivo. Il dominio e lo sfruttamento della natura assorbe largamente, nella nostra civiltà, gli impulsi aggressivi e il desiderio di dominio e di sfruttamento. Gli schiavi sono stati rimpiazzati dalle macchine, e la conquista, dalla padronanza sulle forze della natura.

È importante rendersi conto che dislocazione e sostituzione non sono sempre la conseguenza di repressioni. Esse possono risultare anche semplicemente dalla frustrazione. Se un desiderio non può essere appagato a causa di ostacoli esterni, anche qualora non venga represso, può venire sostituito da un diverso tipo di soddisfacimento. «Un uccello in mano è meglio che due nel cespuglio» (Meglio un uovo oggi che una gallina domani). Il proverbio tedesco è anche più significativo: «In der Not frisst der Teufel Fliegen» (Il diavolo nel bisogno mangia le mosche). Senza dubbio, ogni sostituzione e transfert rappresentano un compromesso; la seconda alternativa è accettata perché ciò che in realtà si desidera viene ripudiato internamente, o precluso da impedimenti esterni. Il valore sostitutivo di un'azione con un'altra è un problema quantitativo, che può essere studiato solo usando metodi sperimentali. Non si sa con precisione sino a quel punto e in qual modo gli impulsi possano essere modificati e diversamente indirizzati. Tale problema deve venire esaminato con i metodi esatti della psicologia sperimentale. Parleremo adesso di una forma particolare di sostituzione, chiamata «sublimazione».

6. Sublimazione

Certe forme di sostituzione si chiamano sublimazione. Quando una pulsione primitiva è inaccettabile da parte dell'io e viene modificata in modo da essere resa socialmente accettabile, le si dà il nome di sublimazione. Gli sport violenti sono sublimazioni di impulsi distruttivi, competitivi e persino omicidi. Il loro scopo non è quello di ledere seriamente una persona, ma di esibire una capacità maggiore di quella dell'avversario, e di divertire gli spettatori permettendo loro — mediante l'identificazione — di alleviare le proprie tendenze all'ostilità e alla competizione. Negli sport, quali il pugilato e la lotta, il desiderio originario di offendere l'avversario è più evidente che non nel tennis, nel golf o nel giuoco degli scacchi.

Nella nostra civiltà competitrice, il giuoco può essere considerato come una sublimazione dell'impulso a rubare, e si combina con la socievolezza e l'ospitalità. Tuttavia, nelle sue forme più crude e commerciali, non è socialmente valido e non può essere considerato quindi una sublimazione.

È discutibile se le manifestazioni modificate dell'erotismo pre-genitale, quali il fumare e il masticare, siano venute a sostituire l'atto di succhiarsi il pollice, o se le collezioni di francobolli o di oggetti artistici che sostituiscono le primissime tendenze coprofi liche e analoritentive, debbano considerarsi sublimazioni. Poiché spesso rivestono un qualche valore sociale, direi che appartengono a tale categoria. Da un punto di vista psicologico, la sublimazione può ritenersi uno speciale modo di sostituire un impulso primitivo con un altro affine, più accettabile dalla società. Le manifestazioni sostitutive della sessualità matura, sono di un'importanza sociale maggiore che non l'appagamento civilizzato degli impulsi pregenitali ostili e competitivi nel giuoco e nello sport. Come la procreazione, le attività creative indicano che il surplus di energia viene usato non più egoisticamente, ma creativamente. Con la procreazione, si viene a creare un nuovo organismo; dal lavoro artistico, letterario e scientifico nasce un nuovo oggetto d'arte, o una nuova nozione scientifica. Le attività creative non sono subordinate a nessun altro fine. Questo appunto esprime Ippolito Taine nel principio de «l'art pour l'art». La ricerca scientifica indica inoltre una curiosità non subordinata a nessuno scopo utilitario. La meta dello studioso è di venire a conoscere qualche cosa sinora ignota, e lo scopo della sua ricerca è il sapere per il sapere. L'arte e la scienza possono servire scopi utili quali l'istruzione e la tecnologia, ma anche in tali applicazioni, l'impulso creativo può superare l'interesse utilitario.

L'aviazione non fu inventata inizialmente per scopi militari o commerciali, ma solo per realizzare l'eterno sogno dell'uomo di innalzarsi verso il cielo: una brama profondamente radicata che spesso appare nei nostri sogni, quando avvertiamo una sensazione di levitazione e sfioriamo lievemente la terra, come se avessimo ai piedi gli stivali delle sette leghe. Quel che si nasconde dietro questi sogni, è la lotta dell'uomo per il potere e il dominio, per la liberazione dai vincoli delle forze naturali che lo incatenano alla terra e alla realtà.

Come l'artista dà espressione alla propria fantasia, spinto da un impulso interno alla creazione, così il movente degli sforzi dello scienziato è una curiosità creativa rivolta a comprendere i misteri della natura. Il soddisfacimento di tale curiosità è di per se stesso uno scopo. Il concetto di Ippolito Taine, «l'art pour l'art», può essere applicato egualmente alla scienza.

È significativo quanto frequentemente gli scienziati facciano dei confronti tra la soddisfazione che proviene loro dalla propria attività scientifica e la bellezza nell'arte. Baker cita Haldane: «Voi potete ascoltare la radio grazie all'opera di Faraday. Di più: uomini e donne educati al pensiero scientifico hanno una visione del mondo più larga e più ricca. Per essi lo spazio, apparentemente vuoto, è pieno delle cose più complicate e belle. Così Faraday diede al mondo, non soltanto nuova ricchezza, ma anche nuova bellezza»!.

Anche l'antropologia moderna accetta tale concetto. In una sua pubblicazione, Roheim dimostrò che persino l'agricoltura, il giardinaggio e l'allevamento del bestiame in origine non furono intrapresi con uno scopo, ma per divertimento. Da principio, essi furono dei passatempi, e solo dopo furono sfruttati a scopo economico. L'uomo, divertendosi, ne scoprì inavvertitamente gli usi pratici. Roheim dimostrò che nel giardinaggio si trovano primitive fantasie di riproduzione: da principio, esso rispose più a bisogni emotivi che non a necessità economiche. Anche l'allevamento del bestiame deriva da riti totemistici che si ritrovano in tutte le cerimonie religiose dei primitivi. Gli animali domestici da principio furono adottati come rappresentazioni simboliche del padre, della madre e dei figli, e solo più tardi fu scoperta la loro utilità pratica.

Adesso questa origine libidinosa e non utilitaria dell'addomesticamento degli animali, può ancora osservarsi nell'abitudine di tener cani, spesso in sostituzione di figli. Il fatto che gli Esquimesi allevino cani a scopi utilitari, potrebbe difficilmente essere usato come argomento contro tale tecnica. In determinate circostanze può essere utile allevare dei cani.

Nella necessità o nel pericolo possono prevalere considerazioni pratiche, ma quando la fame è appagata e la sicurezza raggiunta, gli interessi umani si espandono e diventano creativi. L'uomo produce su un piano artistico e scientifico, investendo in tal modo quel surplus di energia che non serve più per l'autoconservazione.

7.  Condotta provocatoria

Un'altra comune misura difensiva dell'io contro gli impulsi avversi, consiste nel provocare l'ostilità altrui contro di sé. Questo giustifica la rappresaglia e mitiga l'ostilità, senza che se ne identifichi l'origine profonda. L'ostilità appare come una reazione naturale all'ostilità altrui. L'uomo con un marchio sulla spalla è vittima della sua stessa còndotta provocatoria.

8.  Proiezione

Quando l'io non può tenere più a lungo fuori della coscienza le tendenze riprovevoli, diventano necessarie difese più drastiche. Una di queste misure radicali consiste nell'attribuire ad altri i propri impulsi o desidèri repressi. Un'ostilità ingiustificata può semplicemente essere attribuita ad altri. Se l'ostilità divenisse cosciente, potrebbe provocare senso di colpa e ansietà. Per evitare ciò, tutta la situazione può essere capovolta, col dire: «Non sono io che voglio offendere lui; ma è lui che vuole offendere me».

Tale meccanismo di difesa, base del delirio di persecuzione, falsa la realtà attribuendo a una persona un atteggiamento che non ha. Questa distorsione della realtà è possibile soltanto quando l'io, sotto la pressione dell'urgenza emotiva, perde il contatto con la realtà stessa. In casi meno gravi, gli atteggiamenti altrui possono venire esagerati in modo grossolano, anche se non inventati di sana pianta. Freud ha affermato giustamente che in ognuno di noi esistono impulsi inconsci ostili. Il paranoico affetto da delirio di persecuzione, ha dunque un certo fondamento per giustificare la propria posizione. Egli tratta le pulsioni inconsce ostili degli altri come se fossero consce. È un fenomeno della vita quotidiana esagerare l'ostilità altrui verso di noi.

Ma non soltanto gli impulsi ostili repressi vengono così proiettati. Nell'erotomania, vengono attribuite ad altre persone certe inclinazioni sessuali coscienti: «Non solo io lo amo, ma anche lui ama me».

Ogni sentimento represso può essere proiettato negli altri: «Io non sono codardo, indiscreto, curioso, disonesto, ecc.; ma lo è lui». Peccati propri si riflettono, in una forma esagerata, nelle colpe altrui. Nel capitolo sulla psicopatologia, tratteremo più dettagliatamente la proiezione, poiché essa ha un ruolo importante in alcune neurosi e specie nelle psicosi schizofreniche. La proiezione avviene quando l'io non può più a lungo reprimere una tendenza avversa e pur tuttavia non può negarne l'esistenza: esso ricorre allora all'espediente di spostarla e di attribuirla a qualche cosa al di fuori di sé. Chi è consapevole di tali impulsi, ma non è capace di reprimerli, deve negare che essi facciano parte del proprio io.

Come abbiamo già notato, la differenziazione tra il proprio io e la realtà esterna è una delle prime conquiste dello sviluppo nell'individuo. Essa si perde nella proiezione, e il contenuto mentale che non può venire assimilato, viene attribuito alla realtà esterna. Sotto la pressione di emozioni forti e inaccettabili, le persone normali possono ricorrere alla proiezione per preservare l'integrità del proprio io. Ciò accade, tuttavia, solo occasionalmente, e diminuisce col diminuire della tensione emotiva. Una persona normale raramente deforma del tutto il mondo esterno, ma seleziona le occasioni che rispondono ai propri bisogni emotivi. La proiezione è lontana soltanto un passo dalla condotta provocatoria. Nella condotta provocatoria vi è un forte senso di realtà, cosicché il comportamento degli altri non può venire completamente falsato, ma deve essere manipolato per adattarlo ai bisogni del soggetto. L'individuo fa in modo di suscitare negli altri collera e avversione, per giustificare la propria pretesa di essere perseguitato e di dover quindi — povera vittima! — attaccare gli'altri solo per difendersi. Nella proiezione paranoide la persona è meno vincolata dal senso della realtà, e interpreta arbitrariamente, e sbagliando, fatti del tutto ovvi.

9. Introiezione

Un altro importante meccanismo di difesa è il dare sfogo agli impulsi avversi col rivolgerli verso se stessi. Ciò, come la proiezione, avviene quando falliscono le misure repressive. Per esempio, se un impulso inconscio Ostile , verso un essere amato non può venire represso, esso può, perché inaccettabile dall'io, essere rivolto verso "l'io stesso. Per evitare conflitti, l'impulso ostile viene trasferito da un oggetto all'altro. L'ammissione: «lo odio» è inaccettabile dall'io, ed è sostituita dall'altra: «mi odia». Questa ritorsione dei sentimenti, nasce dal senso di colpa che si prova dinanzi a un sentimento di avversione diretto contro una persona amata. Ritorcere questi sentimenti contro se stessi, mitiga il senso di colpa e, insieme, dà sfogo all'impulso ostile.

Anche le pulsioni erotiche possono essere trasferite da un'altra persona a se stessi. La reazione alla frustrazione e il ripudio amoroso conducono a un aumento compensatorio di narcisismo.

«Un parvenu che aveva tentato invano di essere accettato nella buona società, incontrò per caso, in treno, un noto intellettuale, di modesti mezzi economici. Iniziò la conversazione con l'offrirgli un sigaro di marca. L'altro cortesemente rifiutò l'offerta, e tirò fuori il suo sigaro a buon mercato. Il parvenu giustamente interpretò quest'atto come un rimprovero, ed espresse con queste parole ciò che sentiva: ' Non vi capisco, signore. Voi fumate sigari a buon mercato. Guardate me: io fumo i migliori sigari che possano comperarsi e indosso vestiti fatti dal miglior sarto della città. Ho il miglior palco all'Opera, guido i migliori cavalli, e ho la più bella amante della città. In poche parole, io mi voglio bene e ho per me stesso tutti i riguardi possibili, perché non c'è nessun altro che li abbia '».

Il rivolgere contro se stessi gli impulsi ostili ha una parte importante nelle repressioni: e inversamente, il ritorcere l'amore verso se stessi, è un fenomeno importante nella schizofrenia, specie nella sindrome megalomanica.

10. L'identificazione come difesa

Abbiamo dimostrato come operi l'identificazione nell'evolversi dell'io e nel processo di apprendimento mediante il quale l'io acquista la sua efficienza funzionale. Il superio del bambino adotta criteri e princìpi di comportamento già accettati attraverso l'identificazione con gli atteggiamenti dei genitori. Questo è un processo lento, e in un sano sviluppo conduce all'assimilazione, da parte dell'io, del modo di essere dei genitori. In tal maniera l'io si trasforma, e non esiste più una divisione netta tra io e superio. In uno sviluppo morboso, però, il superio rimane come un corpo estraneo in seno alla personalità.

In condizioni traumatiche, quando l'io in evoluzione viene esposto a sforzi emotivi più forti di quanto possa sopportare, l'identificazione può essere usata come misura difensiva. Ne abbiamo già parlato, quale mezzo per sostituire un rapporto obbiettivo improvvisamente interrotto. Nella repressione e nella melanconia, la persona che il paziente ha amato e perduto può essere ricreata entro la sua stessa personalità. Per compensare una perdita intollerabile, la persona in lutto si identifica con il suo amore perduto. Poiché l'identificazione è rapida, e non è il risultato di una assimilazione graduale del modo di essere dei genitori; e poiché questo tipo di identificazione incorpora in toto un'altra persona, spesso viene chiamata «introiezione». L'introietto rimane nell'io come un corpo estraneo; e l'io lo considera con la medesima ambivalenza con la quale considerava l'oggetto originario del suo amore. È questa la ragione per cui un'atteggiamento ostile e distruttivo verso l'oggetto, si trasforma in autodistruzione.

Anna Freud ha scoperto un'altra identificazione difensiva: l'identificazione con un avversario che ci minaccia, usata quale mezzo per alleviare l'ansietà. Appropriandosi, mediante l'introiezione, delle qualità dell'avversario, l'ansietà viene dominata. Il ragazzino che è in cura per i denti, giuoca al dentista con la sorellina. Egli fa il dentista, e la sorellina la paziente. Non soltanto i bambini, ma anche gli adulti, se oppressi brutalmente, possono ricorrere a questo primitivo meccanismo di difesa. Persone sopravvissute alla prigionia nei campi di concentramento nazisti, hanno fatto efficaci descrizioni di prigionieri che agivano verso i compagni con la medesima brutalità da loro stessi subita per mano dei carnefici.

11. Senso di colpa e difesa masochista

Abbiamo acquistato una cognizione precisa del senso di colpa, studiando le psiconeurosi, nelle quali esso assume un importante significato etiologico. Nelle psiconeurosi i sentimenti di colpa e le emozioni che li originano, appaiono in una forma esagerata che rende più facile esaminarli. I processi neurotici sono diversi soltanto quantitativamente dai processi normali. Non esistono due differenti forme di dinamismo psichico; una valida per le menti sane, l'altra per quelle malate. Lo studio delle psiconeurosi ci ha aperto uno spiraglio per la comprensione degli stessi princìpi dinamici che si trovano alla base di tutte le forme di comportamento.

L'origine dei sentimenti di colpa si trova nel rapporto bambino-genitori. Se il bimbo fa qualche cosa che ha già meritato la disapprovazione e il castigo dei genitori, vi reagisce col timore del castigo. Egli ha espiato la sua colpa con la punizione subita, e tra lui e i genitori si sono di nuovo stabiliti buoni rapporti. È indifferente che si tratti di una punizione corporale o verbale, o di una sottrazione di affetto: il resultato è comunque sofferenza e incertezza. Si ripete questa sequenza di eventi: errore e ansietà; punizione ed espiazione e conseguente perdono. L'attesa del castigo porta a sentirne il bisogno, perché soltanto così può venire ridotta l'ansietà che nasce da una condotta scorretta. Dopo che gli atteggiamenti dei genitori sono stati incorporati dalla coscienza (superio), l'intero processo si è intimizzato. L'ansietà è prodotta non soltanto dalle azioni una volta punite dai genitori, ma anche da ogni impulso a commettere quegli stessi atti. Tale timore della propria coscienza, si chiama senso di colpa. Poiché non è più un'autorità esterna, ma è la coscienza che produce il timore e chiede il castigo per alleviare l'ansietà e il rimorso, la persona colpevole deve o infliggersi una punizione, o indurre altri a punirla.

Questa necessità del castigo è una delle leggi più costanti nelle psiconeurosi. I sintomi della malattia sono sovente punizioni che i pazienti stessi si infliggono; ciò è necessario per mitigare il senso di colpa causato da desideri repressi. La nozione che mediante la sofferenza il senso di colpa viene diminuito, è uno dei fenomeni basilari della nostra vita sociale. Molte pratiche religiose, come ad esempio la flagellazione e la penitenza, e così anche tutto il nostro codice penale, sono fondate su di essa. Il criminale, almeno in teoria, può tornare a far parte della società, dopo aver scontato la pena assegnatagli, poiché egli ha pagato in pieno per la sua trasgressione. Uno dei meccanismi di difesa più comuni si basa appunto su un sillogismo profondamente radicato nell'animo umano: e cioè che la colpa si espia mediante la sofferenza.

Secondo questa peculiare equazione, la coscienza accetta il dolore come moneta corrente con la quale può soddisfare le proprie esigenze. Dopo aver così sofferto, la difesa dell'io contro la tendenza avversa risulta diminuita. Ciò può essere espresso, allegoricamente, in termini di teoria strutturale, dicendo che l'io corrompe il superio, per mezzo del dolore, allo scopo di diminuire la sua dipendenza da lui. Le esigenze del superio vengono soddisfatte con la sofferenza, e così la sua vigilanza contro gli impulsi repressi si rilassa. Ciò spiega perché individui che hanno sofferto profondamente, sentono infine di poter fare quel che vogliono e di poter anche non tener conto delle convenzioni. La recidiva comune nei criminali che furono severamente puniti, si può spiegare largamente su questa base. La coscienza sociale viene meno, a causa di un castigo troppo severo, e nasce così il criminale incallito. Per mezzo della sofferenza che si infligge da sé o che provoca, l'io è in grado di accettare o di cedere senza lotta alle tendenze a lui avverse. Tale meccanismo diventa importantissimo nelle depressioni e in stati di depressione maniaca. La nostra nozione del senso di colpa fu tratta per la prima volta dallo studio psicoanalitico di quei disturbi.

A questo riguardo, il masochismo merita speciale considerazione. Ogni forte tensione emotiva può essere erotizzata, in modo tale che il suo sfogo diventa fine a se stesso, e costituisce un piacere sessuale. Ciò accade quando vi è un surplus di tensione che non può essere sfogato, perseguendo gli scopi dell'organismo totale. Nel masochismo, un eccessivo bisogno di punizione prodotto dal senso di colpa, viene erotizzato e «scaricato» nel godimento erotico. Il dolore diventa un fine erotico, e non è più inteso a mitigare il senso di colpa.

L'origine di questo strano fenomeno risiede nel principio della realtà. Nell'adattarsi ai fatti inalterabili dell'ambiente, l'io impara che certi godimenti comportano una sofferenza. La soddisfazione viene con fatica e pena. Un individuo equilibrato soffre quando è necessario, ma ne farebbe volentieri a meno. Egli ara la terra, scava i minerali, si espone ai pericoli del mare, per assicurarsi l'esistenza e accrescere le proprie comodità. In acuto contrasto con questa condotta razionale ed equilibrata, il dolore — nel masochismo — non è un mezzo, ma un fine; la deformazione erotica del principio della realtà. È lo sfogo sessuale di un eccessivo eccitamento provocato dal senso di colpa.

Osservando questi fenomeni, noi possiamo comprendere più a fondo il senso di colpa e punizione. Usando il castigo per educare i fanciulli e correggere i criminali, l'uomo ha imitato il processo naturale di adattamento alla realtà. Poiché il mondo non è stato costruito per venire incontro ai nostri bisogni e desideri personali, noi dobbiamo lottare contro i suoi fatti inalterabili, e formarci una vita nostra. Dobbiamo cedere alla realtà, e accettare il dolore e lo sforzo quali parti inevitabili della vita. Non si può non riconoscere che la punizione di un fanciullo implica una reazione emotiva alla condotta del fanciullo stesso. Tuttavia essa serve a qualche cosa, giacché lo aiuta a rendere la sua condotta più consona al vivere sociale. Nella struttura del superio, l'io si adatta a un codice etico, proprio come si adatta alla realtà esterna. Una volta avvenuto ciò, l'io si sottomette al codice del superio, come prima si sottometteva a quello dettato dai genitori. Il masochismo appare soltanto quando l'autosofferenza diventa un fine erotico, e perde il suo valore di adattamento. La stessa autopunizione è una misura primitiva di difesa per sollevare l'io dal senso di colpa. Quando essa si erotizza nel masochismo, non solo attenua il senso di colpa, ma si trasforma in scopo erotico. Per questa duplice funzione, è uno dei meccanismi difensivi più diffìcili a trattare dal lato terapeutico.

Commenti. Gli stessi fatti furono descritti da Freud in modo un po' diverso. Egli distingueva tre forme di masochismo: erogeno, femminile e morale. Il primo è una forma di eccitamento sessuale, il secondo una manifestazione di femminilità e il terzo un modo di comportarsi.

Applicando la sua teoria dei duplici istinti al problema del masochismo, Freud spiegava il masochismo erogeno come un residuo dell'istinto di morte, non sfociato in un impulso distruttivo, ma rimasto confinato entro l'organismo.'Egli chiamò masochismo erogeno la fusione di questo residuale istinto di morte con l'eros. Il masochismo femminile, secondo lui, è essenzialmente identico al masochismo erogeno. Il masochismo morale è legato a sentimenti di colpa inconsci, che si esprimono nel bisogno di soffrire. Freud lo spiega come una combinazione del masochismo dell'io e del sadismo del superio, che si rivolge contro l'io. Tale sadismo è la conseguenza di impulsi distruttivi, introversi in un secondo tempo. La teoria della dualità degli istinti richiede questa complessa spiegazione teoretica del masochismo. Essa surrogò la teoria originale di Freud, e cioè che tutti gli impulsi possono cagionare eccitamento sessuale, e possono venire soddisfatti sessualmente, quando giungono a un certo grado di intensità. L'indagine clinica del masochismo, quale forma di eccitamento sessuale, può essere condotta su questa base, senza ricorrere a un istinto originario di morte. Il masochismo morale è una misura difensiva dell'io contro il senso di colpa. Esso è basato sulla nozione infantile che il senso di colpa può venire attenuato per mezzo della sofferenza.

Tale formula si fonda in modo universale sul castigo che i genitori infliggono ai bambini disubbidienti. Il fatto che le fantasie masochiste delle donne possono rintracciarsi nel complesso di Edipo, conferma la convinzione che in queste fantasie il desiderio sessuale si unisce alla necessità del dolore, il quale serve a sua volta di difesa contro sentimenti di colpevolezza prodotti da fantasie edipiche. Ciò appare chiarissimamente nelle fantasie di stupro delle donne, le quali in tal modo trasferiscono la responsabilità dei loro desideri al brutale aggressore, alleggerendo così la propria coscienza e soddisfacendo contemporaneamente un interesse sessuale con l'assumere il ruolo della vittima innocente. La protezione dalla colpa permette l'appagamento del desiderio sessuale, purché venga accompagnato dalla sofferenza. Negli uomini, il dolore masochista elimina il senso di colpa che altrimenti impedirebbe il godimento sessuale^ Un paziente maschio, masochista, doveva essere battuto dalla sua compagna, prima di poter attuare il rapporto sessuale. Dopo di ciò, la sua potenza virile non era più turbata e poteva godere pienamente l'atto sessuale. Egli pagava in anticipo il suo piacere. Il ruolo più passivo che hanno le donne nell'atto sessuale spiega perché questo tipo di difesa masochista è più comune tra le donne che tra gli uomini.

Nel masochismo morale, il medesimo bisogno di esser puniti non viene erotizzato, ma serve solo a tranquillizzare la coscienza colpevole. È una difesa nonerotica dell'io contro il senso di colpa prodotto da impulsi avversi. Quando quel bisogno di punizione viene erotizzato, allora il masochismo morale si trasforma in pter vertimento sessuale.

12. Difese contro il sentimento d'inferiorità in rapporto al sentimento di colpa

Nella letteratura psicoanalitica di un tempo, si era soliti considerare il sentimento di inferiorità e il sentimento di colpevolezza, come manifestazioni più o meno parallele di una tensione tra l'io reale e l'io ideale, tra ciò che si è e quel che si vorrebbe essere, tra quel che si fa o si sente in realtà e quello che si dovrebbe fare o sentire. Esaminando però le cose più da vicino, appare evidente una differenza fondamentale tra sentimento d'inferiorità e senso di colpa. Infatti questi due tipi di reazione sono antagonistici, e in fisiologia possono paragonarsi alle innervazioni del simpatico e del parasimpatico, o ai muscoli estensori e contrattori. I sillogismi emotivi che si trovano alla base del senso di inferiorità e di quello di colpa, sono diversi. Il contenuto psicologico del senso di colpa può essere espresso presso a poco con queste parole: «Io non sono buono. Ciò che voglio fare o ciò che ho fatto è riprovevole e malvagio. Io merito di essere disprezzato e punito». Al contrario, il contenuto emotivo del senso di inferiorità è: «Io sono debole, non sono forte, intelligente ed efficiente come le altre persone. Mi vergogno della mia debolezza». Nel sentimento d'inferiorità, l'autocondanna è conseguenza non di un errore, ma del riconoscimento mortificante della propria debolezza. E quindi il senso d'inferiorità stimola la emulazione e l'aggressività.

Il solo modo di sradicarlo è di dimostrare la propria superiorità nella competizione. Il senso di colpa, invece, inibisce la competizione; esso è una reazione a impulsi aggressivi ostili. Per liberarsi del senso di colpa, occorre rinunciare a competere con altri. Questa sola misura difensiva, però, di solito non basta. I sentimenti di colpa richiedono proprio l'opposto di un atteggiamento battagliero, e cioè disciplina, automortificazione, e anche penitenza. Si cerca di liberarsi dal senso di inferiorità gareggiando ambiziosamente con gli altri, cercando di prendersi una rivincita su chi non ha altra colpa che quella di essere più forte di noi. Dal senso di colpa ci si libera con la sottomissione ed evitando di comportarsi in modo aggressivo ed ostile.

Si può obiettare che tale distinzione tra sentimenti d'inferiorità e di colpa è artificiale e cavillosa; che in ambedue i casi si accusa se stessi di un certo genere di deficienza. Nel caso del sentimento d'inferiorità, uno dice: «Non ti vergogni che il tuo amico sia più forte di te e ti abbia battuto?». Nel caso del sentimento di colpa: «Non ti vergogni di rubare i dolci?». In ambedue i casi abbiamo la stessa espressione: «Non ti vergogni?». Un esame più accurato dimostra, tuttavia, che il linguaggio è in qualche modo impreciso, che la parola «vergogna» ha un significato diverso, a seconda di come viene usata. La vergogna di essere stato picchiato dall'amico suscita un senso di ostile competizione e di ambizione, o porta a un tentativo di deprezzare l'amico; mentre la vergogna per avere rubato ha un effetto paralizzante. Il primo tipo di vergogna può essere eliminato picchiando l'amico, e cioè comportandosi in modo violento. Il secondo tipo di vergogna può essere annullato soltanto mediante l'espiazione, o con l'evitare per il futuro di rubare; e cioè, mediante l'inibizione dell'impulso da cui il senso di colpa deriva. La differenza tra sentimento d'inferiorità.e sentimento di colpa si manifesta chiaramente nell'espressione: «Meglio essere un briccone che uno stupido». Perché essere un briccone è una colpa, ma essere stupido è una vergogna.

Se rimanesse qualche dubbio che qui abbiamo a che fare con due emozioni completamente diverse, un breve riferimento a un esempio clinico dimostrerà l'effetto dinamico antitetico di queste due forme di autocritica. La struttura di molte neurosi consiste precisamente nel conflitto a cui il paziente viene portato dalla coesistenza di forti sentimenti di inferiorità e di colpa, perché queste due reazioni richiedono opposti tipi di comportamento per essere mitigate.

In un caso di alcolismo cronico, questo conflitto si palesò subito dopo l'inizio dell'analisi. Un uomo di mezza età, il secondo di tre fratelli, dimostrò, sin da dove cominciavano i suoi ricordi, una coscienza di sé estremamente accentuata, connessa a un vivo senso di inferiorità. Egli paragonava sempre, in senso sfavorevole, se stesso ai fratelli e ad altri; aveva grandi ambizioni nelle gare sportive, ma non aveva alcuna fiducia in se stesso. Nel corso degli anni, sviluppò una personalità sottomessa ed estremamente modesta.

Le sue ambizioni di competere con altri e di eccellere, rimasero limitate alle sue fantasie. Era un tipo ritirato, non appariscente, conformista, sempre cortese, che evitava di contraddire gli altri, con tendenza a minimizzare le proprie capacità. Questo aperto atteggiamento di modestia e di sottomissione lo teneva, però, sotto una fortissima pressione e creava in lui un intenso senso d'inferiorità che a un certo punto divenne tormentoso, specie nei rapporti col suo capo diretto. Il paziente non contraddiceva mai il superiore, accettava i suoi suggerimenti e i suoi rimproveri: ma dopo aver lasciato l'ufficio, egli si disprezzava, e si diceva: «Dovevi mostrargli che non aveva ragione. Sei un buono a nulla, e lo sarai sempre». Questo atteggiamento di disprezzo verso se stesso, di solito diventava intollerabile al punto che egli sentiva il bisogno impellente di bere. L'alcool dissipava il suo senso di debolezza e di inefficienza. Non appena l'alcool cominciava a fare effetto, l'atto stesso del bere prendeva per lui il significato di un atto di rivolta. Egli godeva segretamente del fatto che nel mezzo di una giornata di lavoro poteva evadere dai suoi doveri, concedendosi una cosa proibita. Sotto l'influenza dell'alcool, cedeva anche a tentazioni sessuali, considerandole ribellioni contro le limitazioni a lui imposte dalle norme sociali e dalla voce della sua coscienza. Naturalmente, queste scappatelle alcoliche e sessuali attenuavano il suo senso di inferiorità, perché sotto l'influenza dell'alcool egli osava far cose che altrimenti non avrebbe mai fatto.

Ma non appena sfuggiva alle angosce del senso di inferiorità, precipitava in un nuovo conflitto; quello determinato dal senso di colpa. La parte più istruttiva di questa indagine concerne la seconda fase di questo periodo di alcolismo. Quando l'effetto dell'alcool cominciava a venir meno, il paziente si sentiva colpevole, e non inferiore. Adesso, dopo aver compiuto atti sessuali proibiti e antisociali per mostrare la propria indipendenza, sfuggendo così a un senso di inferiorità, la coscienza cominciava a lavorare e a farsi sentire sotto forma di rimorso. Per liberarsi da questo rimorso, egli doveva di nuovo ricorrere all'alcool, che era servito prima a liberarlo dal senso di inferiorità. Un medico geniale, che ebbi occasione di analizzare, chiamava superio la parte alcolico solubile della personalità umana. Nel caso sopra descritto, l'alcool dissolveva i due tipi di reazione: il senso di inferiorità e il senso di colpa. Non si poteva sbagliare sulla sequenza emotiva: dapprima sorgeva un senso di estrema inferiorità e di autodisprezzo per la propria sottomissione; poi, come reazione, il soggetto si comportava in modo sfrenato e aggressivo; e infine, come reazione alla sua condotta, sorgeva in lui un senso di colpa sotto forma di rimorso. Mentre era vittima del senso di colpa, egli si proponeva di non bere più e di non avere più relazioni sessuali illecite. Quando era tormentato dal senso di inferiorità, il suo atteggiamento era esattamente l'opposto: « Perché non bere? Perché non fare cose proibite? Soltanto un deboluccio accetterebbe di vivere sotto questa pressione interna ed esterna».

Il circolo vizioso causato dall'effetto antitetico dei sentimenti di inferiorità e di colpa, dà la chiave per la comprensione di molte carriere criminali. Nel bambinetto, l'attitudine ostile, competitrice e fortemente ambiziosa verso i fratelli e il padre, provoca un senso di colpa e il timore della rappresaglia. Sotto la pressione dei sentimenti di colpa e di paura, egli abbandona il suo atteggiamento aggressivo e assume un ruolo umile per mezzo del quale, ragazzo inibito e timido, egli cerca di guadagnarsi l'affetto dei suoi pericolosi e potenti avversari. Tale atteggiamento crea, a questo punto, un intenso senso d'inferiorità, offende l'orgoglio maschile, e culmina in una condotta criminale e aggressiva che dimostra come l'individuo si senta indipendente, ostinato, fermissimo, non più in alcun modo sottomesso. "Tale atteggiamento diventa una nuova fonte di sentimenti di colpevolezza che portano a nuove inibizioni, le quali a loro volta causano un sentimento d'inferiorità, stimolo a un nuovo comportamento aggressivo. Qui, l'effetto antitetico dei sentimenti di colpa e di inferiorità è palese. Allo scopo di sfuggire al senso di inferiorità, il criminale neurotico è indotto a commettere azioni che gli danno un'apparenza di forza e di potere. Ma questa condotta che cerca di sfuggire lo Scilla del senso di inferiorità, lo porta a cadere nel Cariddi del senso di colpa. Sotto l'influsso del senso di colpa, egli commette errori grossolani che spesso conducono alla scoperta delle sue malefatte. Perciò il crimine perfetto non esiste.

Il senso d'inferiorità è segno di un conflitto tra gli istinti, più profondo di quello rivelato dal sentimento di colpevolezza, che sorge da una successiva differenziazione strutturale nell'ambito della personalità. La sorgente più profonda dei sentimenti di inferiorità è il conflitto infantile tra il desiderio sempre crescente di diventare grande e simile agli adulti, da un lato; e dall'altro, la nostalgia regressiva verso le prime forme di un'esistenza dipendente da altri. Ogni volta che questa nostalgia vuol farsi sentire, l'io (identificatosi con l'atteggiamento progressivo) reagisce con un sentimento di inferiorità. Tale conflitto si afferma fortemente quando i primi desideri fallici si sviluppano nel periodo edipico. Essi non sono soltanto in contrasto con l'atteggiamento orale e sottomesso del bambino, ma sono inoltre intensificati dal senso di frustrazione che nasce dalla discrepanza tra le brame istintive e la maturazione somatica, tra il desiderio e la sua possibilità di realizzazione. Di conseguenza, mentre il sentimento d'inferiorità è un fenomeno presociale, il sentimento di colpa è il risultato di sforzi a un adattamento sociale. È degno di nota che sotto la pressione di una coscienza colpevole, una persona può diventare così inibita e può essere riportata indietro verso un atteggiamento così passivo, che la sua dipendenza risulta incompatibile con la sua dignità. Per rimediare a questa offesa narcisistica, essa può ricorrere a forme estreme di condotta indipendente e aggressiva. In tal modo, eccessive inibizioni sociali possono essere causa di un comportamento antisociale.

13. Conversione

La prima difesa dell'io di cui Freud parla, consiste nel liberarsi da un impulso avverso attraverso certe innervazioni del sistema volontario neuromuscolare e del sensorio. Ciò ha un ruolo importante nella isteria da conversione. Nella conversione, i sintomi sia dell'impulso avverso che del suo rifiuto, vengono espressi o dai muscoli volontari o dagli organi sensori. Gli esempi più comuni sono le paralisi isteriche, le contrazioni, gli spasmi e le convulsioni, la risata isterica e il pianto, e certe anestesie e parestesie della pelle o di organi specifici, come avviene appunto nella cecità e nella sordità isteriche. È caratteristico dei fenomeni di conver' sione che le cause delle innervazioni rimangano completamente inconsce. L'impulso a prendere, a graffiare, a mordere o inghiottire, e la impossibilità di vedere e di sentire, non si rivelano alla coscienza, ma si manifestano in una particolare attività nervosa, o più sovente per mezzo dell'inibizione dei muscoli volontari. Nel campo del sensorio, il paziente stesso è incosciente del proprio rifiuto a vedere o a udire; di ciò si vedono soltanto i risultati fisiologici nella cecità o nella sordità. Nelle convulsioni delle «grandi isterie» di Charcot, il desiderio nascosto del rapporto sessuale è inconscio, sebbene i moti convulsi del paziente lo indichino chiaramente. Parleremo più a lungo dei sintomi della conversione nel capitolo sulla psicopatologia.

14. Regressione

Abbiamo già trattato della regressione, come di una delle manifestazioni più comuni del principio di inerzia. Essa è essenzialmente quello stesso fenomeno che Freud chiama «coazione a ripetere»; una tendenza cioè dell'organismo a ristabilire una situazione precedente Nel corso dell'adattamento al mondo esterno, i modelli di condotta già dimostratisi utili, vengono ripetuti, diventano automatici e consumano così minore quantità di energia. Poiché l'organismo tende fondamentalmente a preservare l'equilibrio omeostatico con il minor spreco possibile di energia, esso si aggrappa tenacemente a un automatismo positivo. Quando le circostanze mutano, e le reazioni automatiche di adattamento non bastano più a mantenere condizioni costanti, l'organismo è costretto a sostituirle con nuovi modi di condotta, sperimentati attraverso tentativi ed errori.

I meccanismi acquisiti possono crollare sotto lo sforzo emotivo, la fatica, l'urto improvviso dello stimolo esterno, e il rapido mutare delle condizioni esterne. Si può osservare la regressione ai primi modelli di comportamento, e con essa la disintegrazione di una serie di formule di condotta che si risolvono nelle varie parti da cui sono costituite. S'impara a condursi in modi differenti, modificando di continuo le vecchie formule automatiche. Il comportamento regressivo è caratterizzato da un ritorno agli elementi originali, da cui è costituito un comportamento ben sintonizzato. Per esempio, una folla in un momento di panico può correre all'impazzata, urlando e chiedendo aiuto, come bambini che aspettino di essere soccorsi da persone grandi. Ciascuna di queste reazioni parziali, il correre o il chiamare aiuto, può essere in se stessa un'azione utile, ma esse non sono coordinate in uno schema logico. Per condursi in maniera equilibrata in situazioni pericolose, bisognerebbe poter contare in massimo grado sulle proprie risorse personali, e poi sull'aiuto altrui, se necessario.

La regressione ha luogo anche quando un raggiunto equilibrio sessuale crolla. Dopo la rottura di una relazione amorosa, spesso vi è un ritorno nella fantasia ai primi oggetti del desiderio sessuale, ad esempio verso i membri della propria famiglia. Ciò può produrre la neurosi, perché tali fantasie regressive creano conflitti e possono venire espresse soltanto in sintomi neurotici.

La regressione opera in tutte le manifestazioni psicopatologiche, sebbene sia una delle difese meno efficaci dell'io contro le istanze che esso non può soddisfare in forma matura e accettabile. La regressione significa sempre un abbandono degli sforzi concreti compiuti dall'individuo per giungere a un appagamento adeguato. Assai di frequente, è un'evasione dalla realtà verso la fantasia. Nella immaginazione, la strada è aperta a soddisfazioni regressive mediante il ritorno a certi punti di fissazione, a modelli che una volta erano soddisfacenti, ma che sono ormai superati.

Come altre difese dell'io, la regressione, in determinate circostanze, può trovarsi in individui anche sani. Essa ha una funzione importante nei giuochi, negli sport, nel riposo e nella ricreazione. L'uomo di affari che giuoca al golf o fa una partita a carte dopo una giornata di faticoso lavoro, in un certo senso si comporta come un bambino. Egli lotta senza ragione né pericolo, e gode di vittorie fisiche o mentali che non hanno significato alcuno nella lotta quotidiana per l'esistenza. Tali godimenti regressivi lo sollevano dallo sforzo di una condotta equilibrata, coordinata, e implicano una specie di indulgenza verso le tendenze regressive latenti in ciascuno di noi. La tensione si rilassa è riacquista vigore per affrontare i compiti seri della vita.

Il sonno e i sogni sono le manifestazioni regressive più comuni c appartengono al ritmo basilare della vita. Nel sonno, l'organismo distoglie tutti i propri interessi dalla realtà esterna e torna allo stato di oblio in cui era prima della nascita. Le posizioni embrioniche che adottano le persone nel sonno, indicano la natura regressiva del sonno stesso. Anche il metabolismo durante il sonno si avvicina a quello dell'infanzia. Il sognare è un ritorno a forme infantili di pensiero. Il valore distensivo del sonno si basa appunto sulle sue caratteristiche regressive.

IV. UN ESEMPIO CLINICO DI VARIE DIFESE DELL'IO

Molte delle difese dell'io da noi descritte possono essere esaminate con maggior chiarezza, quando l'io viene meno alle sue funzioni integratrici; e perciò potranno essere illustrate in modo più efficace da esempi clinici di condotta neurotica. Il seguente caso dimostra un certo numero di questi meccanismi.

Un commerciante di ventitré anni venne a consultarci circa una forte depressione sviluppatasi in lui, dopo poco tempo che era stato promosso a una posizione di responsabilità. Suo padre era morto quattro anni prima e aveva lasciato lui e la madre senza risorse. Spinto dalla madre, il giovane si era rivolto a uno zio ricco per ottenere un impiego. Costui lo mandò via, dicendo che non intendeva dare impieghi a parenti. In questa situazione disperata, il giovane cercò un lavoro per conto suo, e trovò infatti l'impiego che adesso occupava. Il suo principale lo prese in simpatia e gli offrì la possibilità di farsi strada. Dopo quattro anni di servizio prestato con fedeltà, fu promosso a capo dell'azienda per cui aveva lavorato con tanta fermezza e ambizione. Durante la prima seduta analitica, il giovane disse di sentirsi depresso e in uno stato di tensione. Criticava se stesso e provava impulsi suicidi. La cosa più strana per lui, era il fatto di non poter sopportare la presenza del suo principale senza sentirsi in grandissimo disagio e imbarazzo. Era stato sempre un po' timido e incline a un'eccessiva compiacenza e cortesia; ma recentemente era diventato verso il suo capo addirittura servile. Non poteva guardarlo negli occhi, arrossiva quando quello gli parlava, e ogni volta che il principale entrava nella stanza, egli si sentiva costretto ad alzarsi in piedi e a mettersi a sua disposizione. Nello stesso tempo, non si sentiva in grado di sostenere la posizione di indipendenza e di responsabilità raggiunta. Quando gli fu offerto un aumento di stipendio, appropriato alla sua nuova posizione, lo rifiutò. Capiva come ciò fosse strano, giacché da quando aveva cominciato a lavorare, il miglioramento della propria posizione economica aveva rappresentato per lui uno scopo importante.

Dopo alcune sedute mi raccontò un breve sogno in cui lo zio ricco moriva, a causa di un raffreddore sviluppatosi in polmonite. I particolari qui non hanno importanza, ma l'episodio ci fa comprendere i più importanti fattori psicodinamici, responsabili dello stato del paziente. Nel sogno, egli sostituiva al principale, lo zio. In realtà, il suo desiderio di morte era diretto contro il suo capo e benefattore, non contro lo zio, il quale da molto tempo non aveva parte nella sua vita. Il suo io non poteva accettare questo desiderio di morte. Quando gli fu chiesto che cosa pensasse circa l'eventualità della morte dello zio, rispose che, ove ciò fosse avvenuto, non gliene sarebbe importato nulla: «È una persona malvagia e cattiva, che mi ha abbandonato quando avevo bisogno del suo aiuto e per cui non sento nessun affetto». Una successiva conversazione rivelò che il principale il giorno prima aveva telefonato in ufficio, dicendo che non sarebbe andato perché era raffreddato. Il paziente ricordava anche di aver pensato fuggevolmente che il suo capo poteva ammalarsi di polmonite e morire.

Facendo un confronto tra questo sogno, i sintomi offerti dal paziente e la sua posizione nella vita, non fu difficile ricostruire il conflitto inconscio. Quel giovane ambizioso divenendo capo dell'ufficio aveva raggiunto la più alta posizione a cui potesse aspirare nelle sue condizioni. Dal suo punto di vista il solo ulteriore avanzamento possibile, sarebbe stato poter prendere il posto del capo, il suo benevolo principale. Quando costui aveva telefonato parlando del raffreddore, aveva precipitato nel paziente la speranza inconscia della sua eventuale morte, e della conseguente possibilità che così gli si sarebbe offerta di prendere in mano tutta l'azienda. Tale desiderio di morte era inaccettabile da parte del suo io, poiché egli era profondamente grato all'uomo la cui morte inconsciamente desiderava. Il giovane provava per il suo benefattore gratitudine e affetto, ma la sua ambizione ne richiedeva la morte. Nel sogno egli aveva risolto il conflitto, trasferendo il suo desiderio di morte allo zio, che aveva tutte le ragioni di odiare. I suoi sintomi potevano spiegarsi anch'essi in rapporto a questo stato di conflitto. La depressione era dovuta al fatto che il giovane rivolgeva contro se stesso l'avversione che provava per il suo superiore. La depressione ebbe inizio quando i sentimenti ostili, aggressivi e ambiziosi, non poterono venire repressi più a lungo, perché egli era ormai vicino alla meta: togliere, cioè, l'azienda di mano al suo capo. Quella depressione era un'orgia di autocritica e di autopunizione. Essa dava sfogo ai suoi impulsi ostili, che non potevano più essere del tutto repressi. Una volta rivelatisi chiaramente, l'oggetto contro cui si rivolgevano doveva venire cambiato. Non era più possibile negarne l'esistenza. Allora, invece di aggredire il suo capo, il giovane aggrediva se stesso.

La sua condotta colpevole in presenza del principale, la sua incapacità nell'affrontarlo, alla luce di un tale conflitto diventano spiegabili. Questo caso illustra l'esistenza di sentimenti inconsci di colpevolezza, e dimostra come una persona possa sentirsi colpevole e comportarsi come se fosse colpevole, pur senza sapere perché. Il paziente non aveva commesso nessuna azione offensiva, aveva soltanto reagito al suo inconscio desiderio di morte e alla ostilità contro il principale, come se li avesse messi in atto.

La sua attitudine esageratamente umile e servile illustra anche il meccanismo descritto quale sovracompensazione. Nel suo subcosciente, egli aspirava a divenire il capo dell'azienda, ma si comportava come un servo. I suoi impulsi ostili erano soppiantati dal suo zelo. Il rifiuto di accettare un aumento di stipendio era una difesa sovracompensatoria contro il suo cupido atteggiamento.

Altro sintomo era il costante timore di perdere la propria posizione, perché il principale un giorno o l'altro si sarebbe accorto di quanto poco egli la meritasse. Questo è un esempio di proiezione, poiché il giovane attribuiva al principale il proprio desiderio di liberarsi di lui.

Durante questo periodo il paziente era divenuto estremamente sottomesso alla madre. Egli fuggiva le compagnie, e mostrandosi così depresso chiedeva inconsciamente, ma in modo effettivo, la simpatia materna. Non era più un uomo fiero che si manteneva da sé ed era il sostegno della madre; e aveva assunto il ruolo di un fanciullo bisognoso di aiuto. Tale regressione narcisistica evocava sentimenti di colpa passati e ravvivava un conflitto iniziale. Da bambino, egli aveva desiderato di soppiantare il padre, e adesso, nel suo stato di agitata depressione, riviveva quel conflitto. Poiché il problema iniziale noti era stato risolto, egli in seguito non era riuscito a trovare un equilibrio ed era regredito a una fase preedipica.

Non soltanto rifiutò un aumento di stipendio, ma stava anche per lasciare il suo lavoro, e affidarsi completamente alla madre. Solo il trattamento psicoanalitico lo salvò da questa regressione. Allora rimpiazzò la sottomissione alla madre con un rapporto di completa dipendenza verso il suo medico, e così potè continuare a lavorare, sino a che a poco a poco i suoi conflitti si risolsero, ed egli fu in grado di riprendere utilmente il proprio lavóro.